PADOVA Cinquant’anni fa i figli entrarono nel salotto dei padri con gli stivali. E quelle impronte sul tappeto restarono lì, visibili, per anni. Portarono aria nuova, rovesciarono convenzioni, diedero la scossa a certezze fino ad allora granitiche. Facile fare la rivoluzione nel 1968 se sei Daniel Cohn-Bendit e hai alle spalle il vento del maggio francese. Se gli echi delle arringhe di Mario Savio dal Free Speech di Berkeley, California, sono già arrivati forti e chiari. Più difficile, forse, in provincia di Vicenza. Pure se anche qui non si scherzava: in aprile, a Valdagno, una autentica rivolta operaia alla Marzotto portò all’abbattimento della statua del patriarca Gaetano. Già, Vicenza, dove ha sede l’Associazione italiana calciatori, che pure in un 1968 parecchio caldo anche in Italia rischia di restare scolpita come una delle iniziative più rivoluzionarie del tempo. Giusto 50 anni fa, il 3 luglio 1968, a Milano, l’avvocato bassanese Sergio Campana, 34 anni e una eccellente carriera da calciatore appena chiusa tra Vicenza e Bologna, firma dal notaio la nascita dell’Aic. E, forse senza rendersene conto del tutto, proietta il pallone tricolore fuori dal Medioevo. L’idea di un sindacato è di solito già rivoluzionaria. Figurarsi poi in un mondo paludato come il calcio degli anni ‘60. A volere Campana come loro massimo rappresentante sono Gianni Rivera, Sandro Mazzola, Giacomo Bulgarelli e Giancarlo De Sisti. Robetta, insomma.

Avvocato Campana, cinquanta anni di Aic non sono pochi: da dove partire? «Dalla telefonata di Rivera: più o meno mi disse che quella sorta di sindacato che avevamo fin lì non andava più bene, che era ora che fossimo noi calciatori a prendere in mano i nostri diritti. Avevano pensato a me come presidente, ci pensai su una notte e poi dissi di sì».
Una serata in trattoria e poi la firma a Milano… «Sì, con gli altri ci si conosceva bene, avevo appena smesso e tra Vicenza e Bologna avevo fatto tanti campionati di serie A».
Che situazione avete preso in mano da subito? «Non c’era nulla. Nessun diritto per i calciatori. Pensate che non erano previste né una forma pensionistica né l’assistenza in caso di malattia. Nulla di nulla. Eravamo, si può dire, in balia delle società».
Significa che avete iniziato a seminare in una terra incolta? «Assolutamente sì. Una delle prime cose fu ottenere lo status di professionista dalla serie A alla serie C, l’abolizione del semiprofessionismo, che non significava nulla: sono stati primi passi».
Che ambiente si viveva nel calcio prima della nascita dell’Aic? «Un ambiente spesso difficile. Abbiamo ottenuto l’abolizione, per esempio, della clausola che consentiva a una società il taglio del 40% dello stipendio a un giocatore che non avesse raggiunto le venti presenze in campionato».
Che accoglienza vi riservò un mondo spesso molto chiuso e poco incline alle novità come quello del calcio? «Beh, si parlò subito di sindacato dei milionari… »
E non era così? «Ma per carità, è pur vero che tra i promotori c’erano fuoriclasse come Rivera e Mazzola, ma erano loro i primi a ribattere che l’Aic era nata per tutelare non certo loro ma tutti gli altri calciatori meno famosi e meno talentuosi, che giocavano nelle serie inferiori».
A proposito di compensi, lei quanto percepiva di ingaggio da calciatore? «Posso dire che quando andai al Bologna, nel 1959, percepivo quattro milioni di lire a stagione. Ed erano molti più di quanto ne avessi presi al Vicenza, tanto per essere chiari. Non era poco, lo stipendio di un operaio era sulle 45.000 lire al mese, ma certo non ti cambiava la vita come oggi».
L’Aic nasce nel 1968, che di stravolgimenti sociali e politici non ne ha portati pochi: voi come avete vissuto il periodo? «Se ne parlava, non vivevamo sulla luna e si capiva bene che qualcosa stava succedendo e che i tempi erano maturi per un cambiamento epocale. Ma politica non ne abbiamo mai fatta, non fosse altro perché il nostro statuto lo vietava espressamente».
Comunque sia di scossoni ne avete dati: se lo ricorda il calciomercato del 1978? «Certo… Presentai un esposto al pretore Costagliola che bloccò il calciomercato che si teneva all’albergo Da Vinci, dove arrivarono i carabinieri… Volevamo riconosciuto lo status a tutti gli effetti di professionista, che arrivò dopo oltre due anni con la legge 91.».
L’Aic prese vita due anni prima dello Statuto dei lavoratori, si può dire che siete stati a vostro modo precursori dei tempi? «In qualche maniera penso di sì, negli anni siamo stati avvicinati più volte anche dai sindacati confederali ma, come ho detto, siamo sempre rimasti indipendenti».
Presidente dal 1968 al 2011, finora presidente onorario: di cosa va più orgoglioso? «Forse del riconoscimento della forma previdenziale e assistenziale. Ma anche del cosiddetto “decreto Melandri” del 1999, che di fatto ci diede modo di essere presenti con una rappresentanza nel Consiglio della Figc».
Il suo successore Damiano Tommasi è stato candidato alla presidenza Figc, di strada se ne è fatta parecchia… «Sì, devo dire che contavo in una svolta. Invece si è arrivati al commissariamento della Federcalcio, speriamo che con le prossime elezioni si riprenda la normalità delle cose».
I calciatori del 2018 come li vede? «Sono i meglio tutelati al mondo, vorrei dire. E quindi dobbiamo lottare per tenere quello che abbiamo conquistato».
Campana, lei era un attaccante niente male a Vicenza e Bologna…«Me la cavavo bene… Ricordo un derby Vicenza-Padova in serie A, c’era talmente tanta gente che avevano disposto tre file di spettatori anche a bordo campo. Ora non potrebbe più succedere, vincemmo 1-0, che festa…».
La fusione tra Vicenza e Bassano come l’ha vissuta? «Con un po’ di amarezza per la scomparsa del Bassano, dove ho giocato da giovane e dove ho fatto quattro anni il presidente. Ma Rosso è in gamba, sa quello che fa».
Avvocato, i Mondiali li ha seguiti? «Poco e senza troppo trasporto. Non mi hanno entusiasmato,l’Italia non c’era mi ha preso la tristezza».
Fonte: Corrieredelveneto.it

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