“Brilla, ancora”. Così sembra ripetere il sole alla pelle del mare con quell’aria un po’ spavalda, con quel tono un po’ presuntuoso perché conscio di aver creato un’opera d’arte a disposizione di tutti. Senza biglietti, senza tribune o gradinate. Solo curve, come le onde pizzicate dal freschetto di febbraio, come le sponde dei Due Mari. Mastico chewing-gum e ricordi, stamattina. Finestrino abbassato, gomito sinistro in bilico tra l’abitacolo della mia cara Punto rossa e l’asfalto simile a una lingua che non trova più le parole… Pure la radio è spenta, le nuvole dormono da qualche parte. Procedo così, tra nostalgia e malinconia, tra gli ulivi e le poesie silenziose che i pescatori dedicano con devozione al fratello mare. Sono quasi arrivato. Il fascino della Circummarpiccolo sfuma il blu del cielo per ricalcare quello eterno degli occhi di Poseidone. Freccia, svolta a destra e parcheggio. “Sono arrivato”. Qui, sul secondo seno del Mar Piccolo, l’Arena di Taranto, o meglio della Taranto che sa sognare. Ancora. L’oro di Taranto, loro di Taranto. Oltre le teche del MarTa. La dorata bellezza di chi ha sempre saputo volare più che correre. Come te. Iaco, mio Iaco. Ti nomino, ti invoco come una divinità antica, scolpita nel marmo della memoria. Una statua magnogreca unica nel suo genere, dai riccioli ribelli e da quel baffetto che puntava sempre alla porta. Il goal ce l’avevi disegnato addosso, come un tatuaggio inciso dal cielo, come la puntina che solletica il vinile con grazia e trasporto insieme. Avanzo piano, mani in tasca, asciugando il sudore tra i ricami del jeans. Aggiusto i miei occhiali da sole sul naso, per simulare sicurezza e celare la tristezza. Intorno al collo, sistemo alla meglio la sciarpona rosso-blu che mi regalò mio padre non so più quanti anni fa, ormai e mi incammino verso l’altare del suggestivo santuario sul mare della Madonna di Fatima, poco distante. Intorno tutto tace. La domenica mattina è pace. Avanzo con devozione e pudore, varcando il cancelletto in legno posto all’ingresso. “Qui è tutto così puro” dico sottovoce. “Hai ragione” continua un uomo anziano intento a sbrogliare le reti a bordo di una barca. Silenzio. Ancora. I migliori discorsi sono fatti di silenzi d’intesa, nessun fraintendimento. Nel giro di qualche minuto mi raggiunge e così ci ritroviamo, uno affianco all’altro come i giocatori di una squadra pronti a intonare l’inno nazionale. “Quarant’anni fa… Ricordi?” mi chiede commosso. “Certo…” rispondo io per poi proseguire “Ero in fila alla mensa delle scuole C.E.M.M. durante il servizio di leva. Tutto era pronto per la colazione. Ma nessuno sarebbe mai stato pronto a quella notizia. Sa, avevo appena vent’anni ed ero pronto a mangiare il mondo intero come faceva Erasmo col pallone. L’Ermes del calcio di Taranto. Così, me lo descriveva sempre mio padre. Aveva le ali agli scarpini. In campo non saltava semplicemente, volava, pretendeva il cuoio della sfera come fosse una stella da dedicare a qualcuno. Col tempo divenne anche la mia. C’è un’eredità più bella?”. Lui non risponde, anzi, sembra non ascoltarmi più. Fa il segno della croce e si inginocchia tirando un paio di sospiri profondi. Poi d’un tratto “Iaco ci ha insegnato il coraggio. La serenità del coraggio. Ha sbloccato dentro tutti noi qualcosa, ha slacciato i nostri cuori come scarpette da calcio, per prepararli al futuro. Nonostante tutto. Anche ora è così. Anche se è tutto cambiato, anche se è tutto così sporco. E noi che abbiamo avuto la grande fortuna di vederlo giocare…” decido di interromperlo “I miei figli no, purtroppo”. Lui, prosegue leggero “Già. Ma in fondo, è negli occhi del mondo che sopravvive una storia per diventare leggenda”. Iaco, mio Iaco. Ripetiamo insieme come una nuova preghiera da aggiungere ai libri sacri. Chiudo gli occhi, nascondendo le labbra dietro la calda sciarpona al collo. Un soffio di vento improvviso scuote i pensieri, mi mette i brividi mentre il sole comincia a lasciare il posto alle nuvole dapprima in ritardo. Riapro gli occhi, togliendomi gli occhiali da sole e quell’anziano interlocutore non c’è più. Anche la rete è svanita mentre la barca continua a ondeggiare. Sono solo. Incredulo, mi guardo intorno e poi l’orologio… È passato da un bel po’ mezzogiorno. A casa mi aspettano. Non so con chi ho parlato fino ad ora: forse con il saggio cuore di Taranto, forse col mio passato. Poco importa. Tutto era rosso e blu. Tutto parlava di Iaco, il mio Iaco.

Di Federica Brisci.

Fonte: la Fondazione Taras “Concorso Il Mio Iaco 2018”.

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