Come hanno fatto le maggiori Nazionali europee a risollevarsi dalle rispettive crisi tecniche.

Guardando al tabellino di Italia-Germania, semifinale degli Europei Under 21 del 2009, si nota come l’attuale Neue Welle del calcio tedesco sia stata una circostanza attentamente programmata nel tempo: ben sei elementi di quella squadra (Neuer, Boateng, Howedes, Özil, Khedira e Hummels) costituiranno l’asse portante di quella campione del mondo con Löw cinque anni dopo, mentre nell’Italia solo Abate, Cerci, Balotelli e Candreva (l’unico a essere ancora oggi nel giro della Nazionale) troveranno posto sull’aereo per il Brasile in occasione della disastrosa spedizione targata Prandelli. Il tema risulta meglio approfondito in quest’articolo di Espn in cui si analizza la capacità delle storiche grandi d’Europa di costruire i propri cicli vincenti attraverso il ricambio generazionale tra una competizione e l’altra e sfruttando il grande serbatoio delle rappresentative giovanili. Qualcosa che per gli azzurri è diventato sempre più difficile visto che, come scrive Ben Galdwell, parliamo di un movimento «che nelle grandi competizioni ha sempre privilegiato l’esperienza alla freschezza dei giovani, confermando la tendenza dei giocatori italiani a farsi notare solo dopo i 20 anni anche a causa delle poche opportunità di trovare spazio in Serie A». Non è un caso, quindi, che l’ultima Nazionale giovanile ad aver fornito elementi validi per una rappresentativa maggiore vincente sia stata l’Under 21 campione d’Europa a Bochum nel 2004, con Amelia, Zaccardo, Barzagli, De Rossi e Gilardino nuovamente protagonisti in Germania due estati dopo con Marcello Lippi.

La strada della programmazione a lungo termine e dell’interventismo sulle strutture di formazione per i giovani è stata quella comunemente seguita da tutte le Nazionali più blasonate per risollevarsi dopo la chiusura di un ciclo generazionale. Ora che con Buffon la classe del 1976/79 (quella, per intenderci, di Pirlo, Gattuso, Totti) ha perso il suo ultimo esponente, anche in Italia si dovrà necessariamente varare un progetto decennale per arrivare pronti all’appuntamento con i Mondiali del 2022, utilizzando le competizioni intermedie come “tappe d’avvicinamento” preparatorie per un gruppo di almeno 30-35 elementi potenzialmente selezionabili, mutuando quanto accaduto in Germania dopo il disastroso Europeo del 2000. A seguito dell’eliminazione nel girone (con Inghilterra, Romania e Portogallo: un punto, un gol fatto e cinque subiti in tre gare) i vertici del calcio tedesco hanno avviato una riforma divenuta esecutiva a seguito di un altro fallimento europeo nel 2004 (in mezzo c’era comunque stata la finale raggiunta ai Mondiali di Giappone e Corea), puntando sull’integrazione dei calciatori di seconda generazione e sullo scouting costante attuato attraverso la rete delle academy: oltre alla creazione di un campionato giovanile (la A-Junioren Bundesliga, divisa in tre gironi da 14 squadre ciascuno, con retrocessioni delle ultime classificate nei campionati regionali e con le vincitrici che si giocano un posto nella Youth League), ogni squadra, oltre ad avere un proprio vivaio che deve rispondere a predeterminati requisiti (dal centro di allenamento con almeno tre campi regolamentari alle spese specificamente destinate al miglioramento delle strutture), ha dovuto creare un proprio centro per la crescita dei talenti, all’interno di un network più ampio costituito da tutte le accademie di formazione.

Come sottolineato in un’analisi di Stefano Casertano su Pagina99, «in Germania attualmente ci sono 366 centri di sviluppo talenti. Le squadre devono spedire i giocatori più promettenti a un paio di allenamenti supplementari a settimana in questi centri, sotto la supervisione di un totale di 1.300 allenatori. Da qui ci sono 29 coordinatori che fungono da contatto tra i 1.300 allenatori e le squadre professionistiche. I centri servono anche per definire le rappresentative regionali, da cui si scelgono le nazionali giovanili». Un investimento che ammonta a quasi un miliardo di euro ma che ha pagato enormi dividendi in termini di continuità di risultati a livello internazionale: oltre al titolo del 2014, infatti, la Mannschaft può vantare due terzi posti mondiali (2006 e 2010) e un secondo posto europeo (2008, più due eliminazioni consecutive in semifinale nel 2012 e nel 2016) e la vittoria alla Confederations Cup del 2017, puntando su un serbatoio di 40 giocatori convocabili dall’età media molto bassa (25,8 in Brasile, 25,9 a Euro 2016). Il tutto “aiutato” dal contestuale triennio di Guardiola al Bayern Monaco, da sempre squadra guida del movimento calcistico teutonico, che ha incentivato l’adozione di una filosofia proattiva e maggiormente proiettata al controllo del gioco attraverso il possesso palla, poi trapiantata in Nazionale attraverso gli alfieri Lahm, Gôtze, Müller, Kroos e Schweinsteiger. 

Integrazione, multiculturalismo, selezione e reclutamento capillari, accademie di formazione: una formula vincente eppure non del tutto nuova. Già nel 1988, infatti, a Clairefontaine-en-Yvelines veniva inaugurato il primo dei dodici centri federali in Francia, concretizzando il progetto che Fernand Sastre, allora presidente della locale Federcalcio, decise di affidare a Stefan Kovacs, successore di Rinus Michels nell’Ajax delle tre Coppe Campioni consecutive a inizio degli anni ’70. Il centro di Clairefontaine, a distanza di anni, rimane un’eccellenza assoluta a livello europeo: da lì sono usciti Anelka, Henry, Saha, Rothen, Gallas, Bassong, Diaby, Matuidi, Ben Arfa e, più recentemente, Pogba, Areola e Mbappé, formatisi al calcio professionistico ad alti livelli attraverso un programma intensivo di alternanza tra sport e studio e costantemente seguiti da allenatori e tecnici specializzati nella gestione di programmi a lunga scadenza. Non deve stupire, quindi, se i transalpini siano riusciti a superare agilmente le due crisi tecniche verificatesi da inizio millennio: una, meno invasiva, dopo il trionfo Euro-Mondiale del biennio 1998/2000, un’altra, molto più profonda e capillare, seguita all’ammutinamento contro Raymond Domenech durante Sudafrica 2010.

Dopo un necessario periodo di assestamento (eliminazione ai quarti a Euro 2012 e ai Mondiali 2014, in entrambi i casi per mano dei futuri campioni), i tempi sembrano maturi per cogliere i frutti del grande lavoro dell’ultimo lustro. Nel 2014 Benedetto Saccà scriveva sul Messaggero come «non ha smesso di investire nella crescita: solo per avere un quadro, la Fff ha speso oltre 24 milioni di euro negli ultimi dieci anni per ampliare i centri tecnici. Ha selezionato i migliori allenatori del paese e ha consegnato loro i più promettenti talenti francesi, ragazzi dall’avvenire tutto da scriversi. […].La Francia ha tracciato il solco: la capillarità dei vivai, la preparazioni dei tecnici e il denaro. Il futuro, adesso, è dipinto di bleu», anticipando il grande ottimismo con cui in casa francese guardano al 2020 e oltre: in occasione dell’Europeo itinerante, infatti, giocatori come Pogba, Kanté, Griezmann, Varane, Zouma, Tolisso, Coman, Umtiti, Lacazette, Martial, Fekir e Dembélé saranno all’apice della carriera e tutti sotto i trent’anni d’età.

Il caso più clamoroso resta però quello del Belgio. Nel giro di quindici anni, una Nazionale eliminata al primo turno all’Europeo ospitato in coabitazione con l’Olanda nel 2000 e che aveva nei fratelli Mpenza, Marc Wilmots e Luc Nilis i giocatori più riconoscibili, è passata dal 150esimo al quinto posto del ranking Fifa, con star di livello internazionale come De Bruyne, Lukaku e Mertens. Il tutto grazie all’operato di Michel Sablon, direttore tecnico della Federazione. Il suo approccio è stato di tipo tecnico più che sistemico. Coadiuvato da Bob Browaeys, attuale tecnico delle rappresentative giovanili, Sablon più che sulle strutture, comunque già presenti, è intervenuto sulla formazione dei giocatori in senso stretto, anticipando un metodo poi perfezionato all’Anderlecht dal responsabile del settore giovanile Jean Kindermans: si tratta della distribuzione di un manuale contenente le linee guida per lo sviluppo dei giovani calciatori, basato sull’uniformità del modulo da adottare (il 4-3-3), sulla ricerca ossessiva del possesso palla, sul miglioramento progressivo delle capacità tecniche individuali, di palleggio e di read and react del singolo atleta, sulla (ri)scoperta del dribbling come primo fondamentale da insegnare. Il tutto imponendo l’adozione di questo vademecum sia nelle academy in giro per il Paese che nelle scuole primarie e secondarie. E il senso del gruppo, la dimensione fisica e la disciplina tattica? Come rilevato su Undici qualche tempo fa da Cesare Alemanni, «nell’idea di Sablon si tratta di precetti da insegnare più avanti nello sviluppo dei giovani calciatori, all’incirca all’ingresso dell’adolescenza, per il valore che rivestono sia sul piano della formazione agonistica sia su quello della crescita personale». 

Diverso il discorso che riguarda l’Inghilterra. I freschissimi successi al Mondiale Under 20 e all’Europeo Under 19 (primi allori internazionali dal 1966) raccontano che la Nazionale dei Tre Leoni avrebbe un ampio bacino da cui attingere: il problema è un campionato a forte componente esterofila (circa il 67% dei giocatori è straniero, con la percentuale di impiego effettivo che sale a 67,2) che impedisce il definitivo salto di qualità nella fascia d’età tra i 18 e i 21 anni, salvo rarissime eccezione come Dele Alli e Marcus Rashford. Emblematico il caso di Dominic Solanke, nominato miglior giocatore al Mondialino coreano e impiegato appena 97 minuti in Premier League dal Liverpool in questa stagione. Un’apposita commissione nominata dalla Football Association dopo il Mondiale del 2014 sta provando a intervenire soprattutto a livello di infrastrutture di base ma, come ha scritto Dan Kilpatrick, «molte proposte sono già andate perdute a causa delle frequenti lotte interne alla Federazione». La luce in fondo al tunnel, nonostante ottimi presupposti, è ancora lontana, in attesa di capire se in Russia Harry Kane e compagni riusciranno a invertire la tendenza di una Nazionale abituata a deludere nei grandi appuntamenti.

Molto più soft è stata la transizione della Spagna post 2014. Il Mondiale brasiliano sembrava la fine di un’era e di una filosofia di gioco, piuttosto che la fisiologica chiusura del quadriennio d’oro 2008/2012. Eppure, già all’epoca la Bbc avvisava: «Saluta una generazione d’oro di calciatori che hanno osato e avuto successo, entusiasti e ispirati come mai nella storia. Ma i successori sono già in attesa: alcuni già presenti nella squadra attuale, altri che aspettano al di fuori. La Spagna ha conquistato l’Europeo Under 21 del 2013, dopo aver conquistato due anni prima il secondo titolo continentale Under 19, grazie a elementi del calibro di Jesé, Morata, Deulofeu, Isco e Carvajal». Nessun intervento strutturale, quindi, ma la necessità di innestare le nuove leve in un sistema di gioco già collaudato, con la necessaria continuità garantita da Piqée, Ramos, Iniesta e Busquets, magari facendo i conti con un necessario periodo di assestamento, puntualmente verificatosi agli Europei in Francia. Il cambio di guida tecnica, da Del Bosque a Lopetegui, ha permesso poi di superare il ferreo dogmatismo del tiqui taca in favore di una più accentuata verticalità della manovra, rimettendo un vero nueve al centro dell’attacco (Morata) e implementando un sistema di tagli e inserimenti dal lato debole che massimizzi una circolazione di palla più veloce e meno sincopata. Un progetto chiaro e definito e che può giovarsi di un ricambio costante e inesauribile, con Asensio e Dani Ceballos che sono solo la punta dell’iceberg di una varietà di scelta senza precedenti.

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