Ancora oggi per molti argentini esistono solo due modi di intendere il calcio: il menottismo e il bilardismo, ovvero il calcio tecnico, fatto di possesso e votato all’attacco contro quello pragmatico, concentrato solo sulla vittoria. E se si parla di menottismo ci si riferisce a César Luis Menotti, uno degli allenatori più famosi di sempre, ma anche la stessa persona che nel 2008 diceva «L’ unico che mi piace è sempre Che Guevara. Ma ne ho abbastanza di rivoluzioni e populisti».
Sembra impossibile che uno così, l’uomo simbolo del bel calcio e simpatizzante di sinistra, sia stato l’allenatore dell’Argentina del 1978, ovvero della squadra che vinse uno dei Mondiali meno ricordati della storia del calcio. Sì, perché quello fu il Mondiale della dittatura militare guidata dal generale Jorge Videla, di una vittoria voluta e anche condizionata da quella situazione politica, una storia che le istituzioni del calcio non vollero o non riuscirono ad evitare, e che perciò oggi, se possono, preferiscono non ricordare. Ma furono proprio i dittatori, loro sì davverobilardisti, e consentire a quel signore magro, accanito fumatore dai capelli lunghi, di guidare l’albiceleste lungo l’avventura che l’avrebbe dovuta portare verso il titolo. Poco importavano, in questo caso, le sue inclinazioni politiche.
César Luis Menotti era nato e cresciuto a Rosario, guarda caso città natale sia del Che Guevara e che di Lionel Messi, e aveva nel proprio DNA il bel gioco. Aveva fatto l’attaccante fino a giocare undici volte con la Nazionale del proprio paese, e poi nel 1970, a trentadue anni, aveva iniziato a fare l’allenatore. Solo tre anni dopo vinceva il campionato argenitino con il Club Atlético Huracán, titolo che ancora oggi rimane l’unico in bacheca per la formazione di Buenos Aires.
Carriera fulminante la sua, tanto che l’anno successivo fu addirittura chiamato ad allenare la nazionale, in crisi d’identità dopo la gestione Omar Sívori e i Mondiali del 1974. Prima prova, la Coppa America del 1975. La squadra del El Flaco Menotti sarà eliminata dal Brasile in un girone di ferro, ma metterà in mostra un gioco piacevole e offensivo, prolifico al punto di mettere a segno, il 10 agosto 1975, proprio nella sua Rosario, quella che ad oggi rimane la seconda miglior goleada della storia della Coppa: un incredibile 11-0 al Venezuela. Ma Menotti non si mise in mostra solo per le sue capacità tattiche. Come più tardi dirà Osvaldo Ardiles, anche lui fra i marcatori di quella storica partita, «molti argentini, sudamericani, non si interessano al pane, ma solo ai soldi che ci metti sopra» sottolineando come con Menotti invece la disciplina e l’interesse della squadra fossero fondamentali.
Tutto questo devono averlo visto – o qualcuno deve averglielo raccontato – anche i dittatori militari quando, una volta preso il potere nel 1976, si ritrovarono fra le mani l’organizzazione di un Mondiale di calcio assegnatogli quattro anni prima, quando ancora la comunità internazionale non immaginava la piega che avrebbe preso la situazione politica argentina. Un enorme regalo da sfruttare nel migliore dei modi. E dal punto di vista tecnico, una soluzione migliore di Menotti non c’era. La squadra era forte e giocava bene, c’era poco da fare gli schizzinosi. Per il resto, a dargli una mano ci avrebbero pensato loro.
E tuttavia tra il 24 marzo 1976, giorno delgolpe militare, e l’inizio dei Mondiali, in calendario il primo giugno 1978, successero molte cose. Ebbe inizio la sistematica violazione dei diritti umani, la tragica vicenda dei desaparecidos e la pratica della tortura. Ancora oggi si potrebbe discutere per giorni su quanto i protagonisti di quel Mondiale, e Menotti in particolare, sapessero di quanto stava accadendo, in un paese dove i canali di comunicazione erano completamente in mano alla dittatura, e quanto invece abbiano finto di non vedere. Certo, la velocità con cui alcuni giocatori dopo il 1978 presero la strada dei campionati esteri non può essere un fatto legato solo al denaro.
Poi c’è la storia di Jorge Carrascosa, capitano della Selección e dell’Huracán guidato in precedenza proprio da Menotti, che alla vigilia del Mondale rinunciò, senza un motivo dichiarato, a parteciparvi. E poi c’è quella di Mario Kempes, capocannoniere di quel torneo, che non stringerà la mano al generale Videla durante i festeggiamenti per la vittoria finale. Per quanto riguarda Menotti, ammetterà di essere stato usato dal regime, quello sì, e anche che avrebbe potuto evitare le foto con Videla, ma le ammissioni finiscono qui. Semplicemente César Luis Menotti era un uomo di calcio, che amava e ama il calcio, e che faceva quel mestiere nel migliore dei modi. Il resto, in una situazione del genere, si svolge dentro l’anima di ogni uomo, compresa la sua. «Un Mondiale non si fa con un allenatore e undici giocatori. Ci vogliono milioni di persone. E una dittatura è lo stesso» dirà poi, per chiarire che non sarebbe stato giusto attribuirgli una responsabilità superiore a quella che potrebbe avere un allenatore di calcio, e magari finire per essere paragonato a chi aveva amministrato, punito, torturato durante quegli anni.
Ma, soprattutto, Menotti ha sempre difeso la qualità del calcio della sua Argentina in quel Mondiale. E su quello davvero ci aveva messo del suo, fin dalle convocazioni. Aveva lasciato a casa un giovane fenomeno che rispondeva al nome di Diego Armando Maradona, che disprezzava per la sua sfrontatezza. Aveva mescolato ruvidi difensori a uomini di grande qualità tecnica, in un mix perfetto per il gioco che voleva proporre. E non ultimo aveva tenuto insieme quel gruppo sottoposto a un’incredibile pressione.
L’Argentina arrivò seconda nel proprio girone, sconfitta solo dall’Italia di Enzo Bearzot, e alla seconda fase se la vide col Brasile. Riuscì a qualificarsi alla finale grazie alla discussa goleada con il Perù, e infine sconfisse ai supplementari la fortissima Olanda di Johan Cruijff. Si è detto che con il Perù, già fuori dai giochi, ci furono di mezzo soldi, grano e altre contropartite di ogni genere. Si è detto che i difensori argentini potessero prendere a calci gli avversari senza timore di essere sanzionati dagli arbitri. Si è detto che girassero anche iniezioni dopanti, nascoste ai controlli antidoping. Ma, per dirla alla Menotti, «l’Italia nel 1934 non vinse perché c’era Mussolini, ma perché era forte». E sulla forza dell’Albiceleste del 1978 non ci furono e non ci sono dubbi.
Menotti e Maradona
César Luis Menotti fece in tempo a vincere anche il Mondiale Under 20, in Giappone, stavolta con Maradona. Poi dopo il Mondiale 1982 se ne andò in Spagna, al Barcellona, poco prima che in Argentina tornasse la democrazia. Forse aveva visto troppo anche lui, che era solo un uomo di calcio. Uno che ancora oggi intende il calcio come una forma d’arte, uno che ama Josep Guardiola perché dice ai suoi giocatori di passarsi la palla invece di pensare solo a far gol, uno che prima di iniziare la finale dei Mondiali di calcio radunò i suoi e disse loro «Non vinciamo per quei figli di puttana. Vinciamo per il nostro popolo».
Florio Panaiotti
Fonte: Storie di Sport.