IL TACCO RIBELLE CHE FECE SOGNARE L’URSS

Oggi condivido con voi l’emozione di una lettura che mi sta prendendo molto in questi giorni. Si tratta della storia di un ribelle del calcio sovietico, Eduard Streltsov, un campione degli anni ’60.
Il libro che sto leggendo è di Marco Iaria e si intitola “Donne, vodka e gulag”. Racconta la storia vera di quest’uomo incredibile, che io ho scoperto grazie a barbadillo.it. Settimo nella classifica del Pallone d’Oro del ’57, era il centravanti della Torpedo Mosca, una squadra minore di Mosca, ed era un giocatore di classe, veloce, tattico e intelligente in campo. Capace di andare in gol e far segnare i suoi compagni, il suo calcio è talmente pregnante nell’immaginario collettivo sovietico che il suo nome diventa sinonimo di “colpo di tacco”.
Ancora oggi “colpo di tacco” in russo si dice #streltsov!
Alla vigilia del Mondiale ’58, quello che trasformò il diciassettenne Pelè in un mito globale, Eduard Streltsov fu capace di opporre il proprio, pesantissimo, triplo no al regime. E gli costò caro. Molto caro.
Il primo no, comunicato alla Dinamo, lo ha incassato il Kgb. Il secondo, in risposta al Cska, contrasta con l’interesse dei vertici militari. L’ultimo, forse il più pesante, lo incassa una componente del Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico, che voleva fargli sposare la propria figliola. Una ragazza decisamente poco avvenente.
Così quel mondiale del ’58 per lui non arrivò mai. Poteva essere il suo mondiale e Streltstov sarebbe stato il Pelè russo. Ma quel “no” si trasformò in una accusa di violenza carnale e il giovane fu rinchiuso in un gulag e condannato ai lavori forzati per sette lunghissimi anni.
Nel ’65 venne liberato e tornò a giocare nella sua Torpedo, con la quale vinse due campionati e due titoli di capocannoniere. Morì giovanissimo nel 1990 a soli 53 anni, probabilmente a causa di quel che aveva respirato nel gulag. Ora sono alle ultime pagine di questo libro in cui il calcio, la prigionia e la vita di uno sfortunato campione ribelle si intrecciano alla storia di una dei più terribili regimi di tutti i tempi.

Recensione a cura di Pippi Mellone.

“AMARCORD BIANCONERO”, IL CALCIO DAL VOLTO UMANO.

C’era un tempo nel quale il calcio era uno sport prevalentemente parlato e scritto , un avvenimento che si alimentava di tradizione orale e di cronache quotidiane lette e raccontate in un bar di una qualsiasi periferia di città o in una stalla sperduta nelle campagne della provincia italiana. Il libro “Amarcord bianconero” di Ernesto Ferrero, edito da Einaudi, ci parla di un calcio che, dal dopoguerra agli anni ’60, era essenzialmente letteratura nazional-popolare, e ogni partita somigliava ad un romanzo breve, in cui era possibile rintracciare difetti, miserie e grandezze proprie degli esseri umani. In un album di famiglia autobiografico, l’autore (torinese e tifoso bianconero) fa un balzo nella storia civile e sociale di un paese e di uno sport capaci di portare alla ribalta, in un Italia attraversata dalle trasformazioni sociali ed economiche, le gesta eroiche e indimenticabili di giocatori come Gianpiero Boniperti, 《il segretario di Stato della chiesa juventina: professionale,lucido,spietato》 , o Omar Sivori, 《il briccone, il re dei folletti con sulla fronte il ciuffo di un bravo manzoniano o di un ragazzo di vita pasoliniana, i calzoncini che sembravano mutande troppo lunghe, i calzettoni arrotolati sulle caviglie, sulle labbra il ghignetto di quello che ti prende per i fondelli》, o ancora John Charles, 《retto, leale, disciplinato come un granatiere della regina》. E in queste pagine, che raccontano di un calcio che sembrava un vero e proprio “duello rusticano”, nel quale di 《tattiche e dotte strategie si parlava assai poco》, si narra anche del “Grande Torino”, di Valentino Mazzola e della tragedia di Superga del 4 maggio 1949. Accadde così che, in un pomeriggio piovoso, l’aereo di ritorno da Lisbona,con a bordo i “cugini granata”, si schiantò contro il terrapieno della basilica di Superga. E Ferrero ricorda 《il suono basso e profondo,che sembrava uscito dal ventre delle colline》 e che si propagava lentamente fino a sommergere il capoluogo piemontese in una coltre funebre inaspettata. Un libro che non è un trattato sulla Juventus, ma che dal tifo per la Vecchia Signora trae la sua linfa narrativa, a partire dal racconto di quel gruppo di studenti che,verso la fine dell’ 800, si cimentò con questo nuovo gioco arrivato dall’Inghilterra e che poi diede vita a Torino, su una panchina di corso re Umberto di fronte alla “pasticceria Platti” a una squadra dal nome latino. Alla fine il libro conclude il suo profilo letterario con l’omaggio a coloro che hanno scritto, raccontato e amato il gioco del calcio: Gianni Brera, Umberto Saba, Pierpaolo Pasolini, Vittorio Sereni, Mario Soldati, Giovanni Arpino, Osvaldo Soriano e Nicolò Carosio. Il tutto in una vera e propria amarcord per un’epoca del calcio dal volto umano.

Recensione a cura di Salvatore Piconese.

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