Ci accingiamo alla nostra ultima intervista olimpica, la quindicesima a livello di federazione, la seconda per quanto riguarda la lotta. Con noi, un atleta che di Olimpiadi ne sa qualcosa, essendo arrivato alla sua terza partecipazione in carriera: Frank Chamizo Marquez!

Frank, la prima volta che hai sentito parlare di Olimpiadi…

Avevo circa 11 anni ed ero a scuola, al College, a Cuba. Stavo con un mio amico, Juan Pablo, con cui condividevo la camera e gli chiesi cosa fossero queste Olimpiadi. Lui mi rispose che erano l’evento più grande al Mondo. Ed io gli dissi subito ‘Non ti preoccupare, tra qualche anno le vincerò’. Era una ‘cavolata’, naturalmente, avevo solo 11 anni. Poi, a 18 anni, vinsi il Mondiale e avrei potuto qualificarmi già per Londra (2012) ma venni squalificato.

Poi, con la nazionale italiana, ho partecipato a Rio 2016 e a Tokyo 2020. A Rio avevo tante pressioni addosso ed ero anche un po’ immaturo. Le Olimpiadi sono una gara particolare. Non è predestinata per nessuno, è una gara folle. Arrivi lì e sei uno qualunque. Magari arrivi da un quadriennio olimpico fantastico, con Mondiali, Europei, ecc, ma quando arrivi lì ricominci da zero. C’è davvero tanta pressione… Quello che ho imparato è che l’importante è esserci, stare lì, arrivare. Poi quel che succede è da vedere.

A Rio, avevo appena ricevuto la medaglia di bronzo ed ero ancora arrabbiato. Venne da me Tania Cagnotto che mi disse ‘è la mia terza Olimpiade e ce l’ho fatta soltanto adesso. Tu non sei contento per aver fatto medaglia alla prima? Sorridi!’ Mi fece bene!

Se vedi la mia carriera, io ho vinto tutti i titoli, tranne quello olimpico. E lo cerco da 8 anni…

Il primo pensiero quando ti hanno detto che saresti andato a Parigi…

Beh, è stato molto particolare… Intanto, io non sono abituato a fare questi tornei di qualificazione, tutte queste scommesse all’ultimo. In genere mi qualifico con la medaglia ai Mondiali o da numero 1 al Mondo nella categoria. Quella dei tornei di qualificazione è una dinamica veramente difficile da gestire, per gli atleti e anche per le federazioni… Sono una specie di taglia testa, dentro o fuori tutto molto velocemente…

In ogni caso, al primo torneo (a Baku) io ero preparato e, sinceramente, non ce n’era per nessuno. Però, arrivato lì, ho capito davvero quanto vale andare alle Olimpiadi e quanto fanno le persone per esserci. E ho capito che bisognava salvarsi e ho cercato di salvarmi in tutti i modi possibili.

Poi è successo quel che è successo, ho passato due mesi in cui mi dicevano ‘vai, non vai, vai, non vai’. Un gioco mentale difficilissimo da sopportare, bisogna restare forti. Alla fine, mi hanno detto che era ufficiale. Io me lo sentivo perché me l’ero guadagnato, mi ero ben allenato e il guerriero che è in me mi diceva ‘sì, ce l’hai fatta’. Però la verità è che quella vicenda si inseriva in un qualcosa di più grande di me, che non era completamente nelle mie mani…

Dunque, appreso della qualificazione, con un solo mese per prepararmi, è uscita fuori tutta la mia grinta…

Prova a immaginare la giornata della gara…

La lotta è uno sport particolare. La questione del peso è dura… quando arrivo non voglio parlare con nessuno, non prima di aver fatto il peso e, dopo, la colazione! È uno sport faticoso. Però sei lì con le persone a cui vuoi bene, con cui condividi questi sforzi, che fanno il tifo per te e fanno qualsiasi cosa per supportarti.

E se invece dovessi immaginare di essere arrivato in finale e, poi, di vincerla anche. Qual è il primo pensiero?

Innanzitutto, scaramanzia! Ma scherzi a parte, la dedicherei prima di tutto a me stesso, perché sono il mio primo avversario come ho sempre detto. E poi, senza ombra di dubbio, il pensiero va immediatamente a Lucio Caneva che ha creduto in me da sempre, da quando ero un ragazzino, e che mi diceva ‘sei tu il migliore al Mondo’. Lui era tutto per me!

Tra una finale per l’oro persa, quindi argento, e una finale per il bronzo vinta, alle Olimpiadi cosa vorresti?

Una volta che sei in finale la vuoi vincere. C’è poco da fare. Detto ciò, una medaglia olimpica è una medaglia olimpica, di qualsiasi colore essa sia. Se penso a ciò che è successo a Tokyo nel salto in alto, con Tamberi e Barshim che si guardano e si accordano per l’oro a parimerito. Quello è un sogno! Se ci fosse la possibilità sarebbe bello. Comunque, l’unica cosa certa è se c’è una finale io la vorrei vincere. Perdere è sempre dura.

E dopo Parigi, Frank cosa fa?

Continua! Punto a Los Angeles! Avrò 36 anni, si può fare. Ti do questa breaking news: non mi fermo, sono ancora un bimbo. Mi considero ancora tra i primi 4 o 5 al mondo. Per continuare dovrò prendermi davvero cura di me e del mio corpo ed è esattamente quello che voglio.

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