Questa sera le Paralimpiadi di Parigi si concluderanno, con la cerimonia conclusiva in programma alle ore 20,30, e l’Italia pongistica già venerdì sera ha archiviato un’edizione clamorosa dei Giochi.
Gli azzurri non vincevano una medaglia d’oro dal 1972 a Monaco di Baviera, con Rosa Sicari, e nella capitale francese hanno fatto doppietta, con la 30enne pordenonese di Zoppola Giada Rossi in classe 1-2 e il 21enne triestino Matteo Parenzan in classe 6, sommando i bronzi della 22enne faentina Carlotta Ragazzini in classe 3 e del 30enne veronese Federico Falco in classe 1.
È stata la spedizione più trionfale della storia e a tracciare un bilancio non può che essere il grande capo, il direttore tecnico Alessandro Arcigli.
Ciao Alessandro, a dire il vero, prima di partire per Parigi, non hai mai nascosto la tua fiducia.
«Ero molto tranquillo, perché non avevo alcuna intenzione di valutare la qualità della donna, dell’uomo, degli atleti e del percorso fatto sulla base dei risultati, che poggiano su molte variabili. Ero soddisfatto di quello che questi ragazzi hanno dato e danno quotidianamente da dieci anni a questa parte. Non è una partita vinta o persa che mi fa cambiare l’opinione su come lavoriamo e su come loro si applichino. Detto questo, è chiaro che volevo vincere e per andare in quella direzione in questi anni abbiamo anche normalizzato la sconfitta».
Cosa intendi?
«Giada in passato ha perso la finale agli Europei, la semifinale ai Mondiali e i quarti di finale alle Paralimpiadi, che non avrebbe dovuto perdere, però fa parte del gioco. La sconfitta è diventata una possibilità. L’ultima volta lei aveva perso nettamente contro la cinese Liu Jing, che ha battuto in finale a Parigi, e nella partita recente contro la coreana Seo Su Yeon a Pattaya stava conducendo per 10-5 al quinto set e ha ceduto per 12-10. Tornata in panchina non ha recriminato neppure un secondo, abbiamo semplicemente discusso serenamente».
Nel terzo set della finale di Parigi sul 10-8 lei stessa ha chiamato il timeout, cosa vi siete detti?
«Le ho spiegato che stava accadendo quanto era già avvenuto in Thailandia e che se avesse aspettato che l’avversaria sbagliasse lei non avrebbe sbagliato. Giada avrebbe dovuto costruire l’opportunità per portare a casa l’ultimo punto. L’altra volta non aveva perso, aveva imparato come comportarsi in quelle situazioni e l’esperienza le è servita».
Anche Parenzan ha fatto tesoro degli insegnamenti?
«A Tokyo era stato superato nelle due partite del girone per 3-0 e dopo soli tre anni si è aggiudicato le Paralimpiadi, senza perdere neppure un set. Nel frattempo lui è diventato un uomo e un atleta vero e si è allenato per far sì che ciò che non aveva funzionato in Giappone andasse bene a Parigi».
Lui, però, non si allena sempre al Centro Tecnico di Lignano Sabbiadoro?
«La scelta è stata ampiamente concordata, un atleta in piedi ha altre esigenze rispetto a un compagno in carrozzina e non avrebbe senso svolgere al Centro Federale un lavoro che Matteo può effettuare meglio all’Ask Kras, la sua società. Viene a Lignano il venerdì e fa tre ore al mattino e altrettante al pomeriggio, per affinare la parte tattica. I sei pongisti in carrozzina, invece, s’impegnano in una sorta di college permanente, che penso In Italia non abbia eguali in ambito paralimpico, per 39-42 ore alla settimana. A questo proposito mi sta piacendo la definizione che sento in questi giorni che noi siamo un ristorante a conduzione familiare. Abbiamo i nostri sette coperti, che sarebbero gli atleti, e conosciamo tutte le necessità di ognuno di loro».
Una scelta che deve essere, però, condivisa?
«Esattamente e per questo motivo sono grato enormemente alla Federazione e, primo fra tutti, al presidente Renato Di Napoli, per aver sposato la decisione di ridurre i numeri su cui concentrarci, limitando la possibilità di fare risultato, ma aumentando le opportunità che si possono offrire a ognuno degli atleti coinvolti. A fronte del bando che ha permesso di selezionare dei nuovi sparring, negli ultimi due mesi della preparazione, dal 17 giugno al 23 agosto, abbiamo potuto contare su Luca e Marco Bressan, Gianni Novi e Matteo Orsi. I ragazzi fra loro non si sono allenati mai, ognuno aveva uno sparring ad hoc per le sue esigenze».
Veniamo agli due medagliati di bronzo?
«Carlotta Ragazzini si è stabilizzata in classe 3 da un anno e sta facendo passi da gigante. A 22 anni e al suo esordio è arrivata alle Paralimpiadi in ottima forma e con un’ottima classifica, conseguenza di una stagione solida. Dopo gli ottavi rocamboleschi, con il 3-2 sulla turca Hatice Duman, si è sbloccata e già giocato benissimo nei quarti contro la croata Helena Dretar Karic e, soprattutto, in semifinale contro la coreana Yoon Jiye, che prima o poi ha dimostrato che batterà. È entrata nel firmamento delle stelle mondiali del tennistavolo. Per quanto riguarda Federico Falco, in classe 1 gli atleti dal quinto all’ottavo posto del seeding si equivalevano con quelli dal primo al quarto e già qualche mese fa gli avevo detto che sarebbe stato più possibile battere il n. 1 coreano Joo Young Dae nei quarti piuttosto che in finale».
Insomma quello che poi ha realizzato era un risultato alla sua portata?
«Federico ha sempre giocato bene con Joo, ci ha vinto una volta nel 2022 e altre ha combattuto. Poteva farcela e ce l’ha fatta. In semifinale qualsiasi dei quattro giocatori poteva prevalere, forse aveva qualche chance in più l’inglese Robert Davies. Il veronese contro il cubano Yunier Fernandez, che poi si è messo al collo l’oro, nel quinto set è crollato mentalmente. Più che sull’ultimo parziale si potrebbe recriminare sul primo, nel quale ha avuto due palle di chiusura. Federico ha perso, ma poteva vincere, una partita che poteva perdere. Era una gara aperta a qualsiasi soluzione e non è stata un’occasione persa».
E che dire degli altri tre?
«Federico Crosara in classe 2 ha battuto per 3-1 l’ottimo slovacco Martin Ludrovsky e nei quarti, per andare a medaglia, era 1-1 contro il polacco Rafal Czuper, che poi si è assicurato il titolo. Andrea Borgato da otto mesi assumeva quotidianamente sei antibiotici e ha smesso nove giorni fa. Per lui è stata una grande impresa qualificarsi a Parigi e nei quarti ha dominato il primo set e ha avuto poi la possibilità di andare alla “bella” contro l’ungherese campione Europeo Endre Major. La capitana Michela Brunelli ha lottato contro la forte cinese Xue Juan, uscendo con onore».
Veniamo alla nota dolente?
«Non c’è ombra di dubbio, il doppio femminile di classe WD5 era, sulla carta, la nostra risorsa più probabile di podio, con le campionesse mondiali Michela Brunelli e Giada Rossi. Il sorteggio, è vero, non è stato fortunato, perché avremmo potuto incontrare l’Egitto o la seconda coppia brasiliana e invece abbiamo trovato le thailandesi, che avevamo battuto cinque volte su sei, sempre in partite complicate. Abbiamo perso meritatamente una sfida non agevole, nella quale eravamo favoriti. Non abbiamo retto bene la pressione del primo match a eliminazione diretta. Con il numero di errori che abbiamo commesso, sarebbe stato impossibile vincere. È stato un peccato, Giada e Michela, per tutto quello che hanno fatto in questi anni, si sarebbero meritate una medaglia alla prima edizione delle Paralimpiadi di doppio, dopo quella a squadre di Tokyo».
È possibile che quella sconfitta abbia innescato la reazione, che ha portato agli esiti inimmaginabili dei singolari?
«Sicuramente è stata un colpo forte, non solo per le due ragazze e per me, ma per il resto della squadra. Ci siamo resi conto subito di quanto fosse difficile la nuova formula senza appello. Eravamo delusi e siamo riusciti a resettare la situazione. Probabilmente questa sconfitta è servita a tutti, perché ci ha dato l’opportunità di effettuare tre giorni di allenamento in palestra lontani dalle gare. Non siamo più andati al palazzetto venerdì 30 e sabato 31 agosto e domenica 1 settembre prima delle gare e ci siamo preparati come se fossimo a Lignano. Abbiamo compreso che si poteva perdere da favoriti e anche vincere da outsider. Tutto era possibile. Se ci fossimo aggiudicati quella gara di doppio, sarebbe stata un’altra Paralimpiade. Visti i risultati successivi, possiamo dire di avere gestito bene la sconfitta. Da quel momento non ci sono più state battute d’arresto dolorose».
Veniamo allo staff strutturato che hai a disposizione?
«Nel dopo Tokyo, nella sorpresa generale, ho iniziato una terapia d’urto già ai Mondiali del 2022 a Granada e sia Hwang Eunbit sia Massimo Pischiutti sono diventati parte integrante non solo della preparazione, ma della gestione delle gare. Ho assegnato a ogni tecnico la responsabilità di qualche atleta. Hwang ha seguito Falco e Ragazzini, Pischiutti si è occupato di Borgato, Crosara e Parenzan e io di Brunelli e Rossi. L’allenamento, quando sono presente, è coordinato da me e Massimo e Hwang sono degli ottimi coach al tavolo. Questa si è rivelata una scelta vincente e loro due sono stati determinanti nei successi ottenuti. L’assistenza degli infermieri Eva Pittini e Mauro Bianchini è impagabile e insostituibile e li ringraziamo sempre troppo poco. A casa abbiamo l’aiuto di altre due figure fondamentali, che non hanno potuto essere con noi a Parigi per una questione numerica. Il preparatore fisico Alessandro Sellan svolge due o tre sedute alla settimana con gli atleti in carrozzina e la fisioterapista Anna Simonatto ci supporta una o due volte alla settimana».
Quattro medaglie cosa significano?
«Contiamo le medaglie, ma dobbiamo anche pesarle. In questo momento vincere è veramente difficile, molte nazioni investono cifre notevoli nel tennistavolo paralimpico, con una professionalità di giocatori, tecnici e staff che ormai non ha più nulla da invidiare al settore olimpico. In Italia riusciamo, con un’organizzazione e con una visione in prospettiva, a essere competitivi da un bel po’ di tempo. È ovvio che ciò che è successo alla South Paris Arena 4 non lo avrei non solo sperato, ma neppure sognato. Ammetto che abbiamo esagerato (e ride)».
Come si può alzare ancora l’asticella?
«Nel momento in cui penserò che sia arrivata al massimo, mi farò da parte. Ritengo che la squadra non abbia ancora iniziato la sua parabola discendente. I quattro medagliati sono giovani e giovanissimi e sono motivatissimi. Ieri, (venerdì, ndr) con due di loro discutevamo di cambiare il telaio della racchetta e almeno una delle due gomme, per modificare ancora qualcosa nel loro gioco. Lavoriamo ancora in termini costruttivi, perché si può essere ancora più performanti. Personalmente non mi sento appagato e non lo sono neppure i ragazzi».