Nel succedersi delle rivoluzioni che nel 1989 rovesciarono regimi comunisti in tutta Europa centrale e orientale, il politologo statunitense Francis Fukuyama scrisse, con grande risalto mediatico, che la fine della Guerra Fredda era portatrice di quella che lui definiva “La Fine della Storia”.
Con il comunismo ormai privato di ogni credibilità, sosteneva il politologo, il modello liberaldemocratico occidentale emergeva come la migliore e unica forma di governo. Non è difficile intuire le ragioni dietro la teoria di Fukuyama se si considera per un attimo l’euforia che stava travolgendo sia l’Europa che il resto del mondo durante l’Autunno Delle Nazioni. L’inaspettata e improvvisa ondata di rivoluzioni che rase al suolo la “cortina di ferro” cominciò in Polonia per poi svilupparsi velocemente in Germania Est, in Cecoslovacchia e al resto degli stati del Patto di Varsavia, col crollo del Muro di Berlino a simboleggiare la fine della divisione continentale. Due anni più tardi persino l’Unione Sovietica, l’Impero del Male che per 40 anni aveva tenuto tutti i suoi cosiddetti “alleati” legati ad un guinzaglio (spesso in modo cruento), collassò fino a disintegrarsi in 15 stati diversi. Si trattava di un periodo nella storia del mondo molto turbolento che alterò drasticamente gli equilibri geopolitici globali. La geopolitica non fu la sola scienza sociale a venire trasformata. Alla Fine della Storia non corrispose certamente la Fine del Football, ma il gioco più bello del mondo non ne uscì incolume. Due tornei, la Coppa del Mondo 1990 e i cicli di qualificazione per i Campionati Europei del 1992, ci mostrano fino a che punto le rivoluzioni del 1989 e l’instabilità politica che conseguì influenzarono il panorama calcistico europeo.
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Sei mesi dopo aver rovesciato il partito comunista grazie alla pacifica Rivoluzione di Velluto, la nazionale cecoslovacca partecipò al suo primo torneo internazionale dopo il Mundial del’82. Prima degli eventi del 1989 solo ad un ristretto numero di giocatori cecoslovacchi fu concesso di esercitare il proprio mestiere all’estero. Il più illustre tra questi era senza dubbio Antonìn Panenka (si trasferì al Rapid Wien nel 1981), entrato nella storia grazie all’audacia del “rigore a cucchiaio” che oggi porta il suo nome. Ma già a partire dal 1990 la situazione cambiò drasticamente: ben 8 dei 22 giocatori della nazionale giocavano in Europa occidentale, tra i quali ricordiamo Luděk Mikloško del West Ham e František Straka del Borussia Mönchengladbach. I cecoslovacchi agguantarono la qualificazione il giorno prima dell’inizio delle proteste di massa che portarono alla fine per i comunisti e si resero protagonisti di una grande prestazione al mondiale italiano, venendo eliminati solo ai quarti di finale con una sconfitta per 1-0 per mano di quella Germania Ovest che avrebbe poi vinto il torneo.
Curiosamente, anche la Romania si assicurò la qualificazione al torneo il giorno prima della sollevazione di Timișoara. La rivolta scatenò una serie di eventi che culminò con il processo e l’esecuzione sommaria del segretario generale del partito comunista rumeno, Nicolae Ceaușescu. Coincidenza? Probabilmente sì. Diversamente dalla rivoluzione cecoslovacca, la sollevazione rumena fu tutto tranne che incruenta, con decessi nell’ordine delle migliaia, eppure il calcio continuò per la propria strada quasi senza ostacoli. La programmazione della stagione non subì modifiche dato che la Divizia A, la prima divisione del calcio rumeno, era in pausa invernale durante l’inizio della rivoluzione, ma due squadre furono costrette allo scioglimento: il club della città natale di Ceaușescu (l’FC Olt Scorniceşti) e la squadra supportata dal ministro degli interni, il Victoria Bucureşti. Si decise che tutte le partite non disputate dalle due squadre per il resto della stagione sarebbero state registrate con un 3-0 a tavolino per gli avversari. Dopo che le acque si furono calmate, la nazionale rumena si trasferì in Italia per la loro prima apparizione ad un Mondiale dopo 20 anni di assenza con una squadra composta da giocatori che esercitavano ancora in madre patria. Anche se ad alcuni giocatori rumeni fu concesso di giocare all’estero (e altri ancora disertarono), la nazionale era sempre stata composta esclusivamente da giocatori che risiedevano in terra rumena e la squadra del 1990 non faceva eccezione. La Romania cominciò splendidamente con una vittoria per 2-0 sull’Unione Sovietica a Bari ma venne poi eliminata agli ottavi dall’Irlanda. Solo a partire dal 1994 sarà possibile vedere una nazionale rumena che comprende giocatori stanziati in Europa occidentale.
Nel frattempo, l’Unione Sovietica era ormai diventata l’ombra di se stessa, sia dal punto di vista del prestigio internazionale sia dal punto di vista calcistico. Prima dell’inizio della Coppa del Mondo, nelle prime elezioni libere della storia sovietica, i comunisti rimediarono batoste elettorali negli stati baltici, in Moldavia e in Armenia, mentre nuovi movimenti nazionalisti cominciarono ad emergere in tutte le repubbliche. I capi del partito a Mosca faticavano non poco a tenere L’Unione sotto controllo. La deludente prestazione della nazionale russa ai Mondiali fu una conseguenza di tutti questi sviluppi politici: a solo due anni di distanza dall’aver raggiunto la finale di Euro 1988, in Italia i russi non riuscirono nemmeno a qualificarsi agli ottavi di finale. Dopo aver rimediato due sconfitte contro Romania e Argentina nella fase a gruppi, i russi si trovarono a dover battere il Camerun con almeno 4 gol di differenza e a sperare che Argentina-Romania non si concludesse con un pareggio, uno scenario molto improbabile. Il Camerun aveva lasciato il mondo di sasso dopo aver sconfitto l’Argentina per 1-0 nel match d’apertura per poi confutare chi pensava ad un semplice colpo di fortuna con un’altra vittoria (stavolta per 2-1) contro la Romania. Convinti di aver ormai la qualificazione in pugno, i camerunensi non si presentarono in campo contro i russi nella miglior condizione psicologica, e i sovietici fecero esattamente ciò che dovevano fare vincendo per 4-0. Il destino sfuggì di mano definitivamente agli africani quando l’1-1 tra Argentina e Romania li condannò all’uscita dal torneo.
È possibile tracciare un collegamento tra un URSS che andava sgretolandosi e le pessime prestazioni della sua nazionale? Qualcuno potrebbe sostenere che la perestroika abbia facilitato la fuga di alcuni dei migliori giocatori russi verso i club occidentali e che questo abbia inevitabilmente alterato le alchimie di gioco della nazionale russa. La squadra che Lobanovs’kyj presentò agli europei del 1988 era fondata su un tale nucleo di giocatori della Dynamo Kyïv che molti sostenitori del club ucraino erano soliti considerare la nazionale come “una Dynamo Kyïv indebolita dalla presenza di giocatori di altri club”. All’inizio del Mondiale l’undici di partenza sovietico sfoggiava effettivamente una rappresentanza di club molto più diversificata del solito ma, realisticamente parlando, la squadra era semplicemente meno forte di quella del 1988 e, come Lobanovs’kyj stesso ha sostenuto a più riprese, l’arbitraggio dei tre incontri si guardò bene dal favorirli. Anche se i giocatori ancora non lo sapevano, quello del 1990 sarebbe stato l’ultimo torneo internazionale che avrebbe visto la partecipazione dell’URSS.
Mentre un’Unione sovietica fiacca e imbolsita si approcciava alla propria fine in maniera lenta ma perlopiù pacifica, la Jugoslavia era già sull’orlo della violenta scissione che avrebbe prodotto un dei conflitti più cruenti dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Subito dopo la morte di Josip Broz “Tito” nel 1980, la repubblica affrontò una decade di stagnazione economica e assistette all’ascesa di sentimenti nazionalisti tra le varie etnie che convivevano nello stato. A partire dal gennaio 1990 la Lega dei Comunisti di Jugoslavia venne sciolta e nei mesi che seguirono i partiti nazionalisti vinsero facilmente le elezioni in Slovenia, Croazia e Bosnia e il football slavo non si rivelò immune alla crescente etno-politicizzazione degli stati. Il 13 maggio 1990 la Dinamo Zagabria si misurò in casa con la Stella Rossa di Belgrado in un partita che si disputò a poche settimane di distanza dalla vittoria dei partiti pro-indipendenza croati. Questa partita viene spesso considerata come l’inizio simbolico delle guerre jugoslave, soprattutto dai nazionalisti croati. In questo frangente storico sia la Dinamo che la Stella Rossa erano considerate come squadre inestricabilmente associate ai movimenti nazionalisti croati e serbi. Scoppiò un’enorme faida tra i Bad Blue Boys e i Delije, i supporters di Dinamo e Stella Rossa, rispettivamente. Il centrocampista della Dinamo Zvonimir Boban entrò nella storia per aver preso a calci un poliziotto che stava cercando di arrestare un sostenitore della Dinamo. Con quel gesto Boban guadagnò sia la sospensione dalla squadra nazionale sia il titolo di eroe da parte dei supporters.
A dispetto delle tensioni che ribollivano tra i balcani, la Jugoslavia si presentò al mondiale italiano con una squadra multietnica formata da giocatori della Dinamo e della Stella rossa (escluso Boban, ancora sospeso). Nell’ottavo di finale contro la Spagna, l’undici di partenza era formato da 5 bosniaci, 2 serbi, 1 croato, 1 montenegrino, 1 sloveno e 1 macedone. Come ha scritto Jonathan Wilson, quella squadra era “l’incarnazione dell’ideale federale jugoslavo”. Una vittoria per 2-1 permise loro di accedere ad un quarto di finale contro l’Argentina di Maradona, ma a quel punto le politiche interne cominciarono ad interferire con l’armonia della squadra. Il centrocampista sloveno Srečko Katanec ricevette minacce di morte dalla sua regione natale. Gli si chiedeva espressamente di non giocare e Katanec, onde evitare ritorsioni contro i suoi familiari in Lubiana, implorò di essere escluso dalla squadra. La Jugoslavia, pur costretta a giocare in dieci uomini dopo appena 31 minuti, riuscì a fornire una prestazione coraggiosa contro l’Argentina ma, dopo aver resistito sullo 0-0 per tutto l’incontro, venne eliminata ai rigori. Come ha detto il loro allenatore Ivica Osim: “La squadra era molto, molto migliore del paese che rappresentava. Questa doveva essere l’ultima partecipazione della Jugoslavia sul palcoscenico mondiale, sia come squadra che come nazione.”
Durante il mondiale del 1990 il football mostrò sì i segni lasciati da eventi extracalcistici, ma si trattava di piccole cicatrici guadagnate in circostanze perlopiù pacifiche, con la politica a svolgere un ruolo di secondo piano. Saranno le qualificazioni ai Campionati Europei del 1992 a fornire le cause per la distruzione di questa normalità.
Fonte: Questoluridogioco.wordpress.com