Una targa lo ricorda allo stadio Meazza di Milano. È stato l’allenatore che più a lungo ha guidato l’Inter dopo Herrera, il Trap e Mancini. Ma era ebreo e con le leggi razziali del ’38 perse lavoro e diritti, fino all’ultima destinazione: Auschwitz.
Árpád Weisz era nato a Solt, un paese che oggi conta circa settemila abitanti situato a settantatré chilometri da Budapest, il 16 aprile 1896. Il padre, Lazzaro, e la madre, Sofia, facevano parte della comunità ebraica della cittadina. Cresciuto in un ambiente culturale sensibile ai fermenti del primo socialismo, dopo aver conseguito il diploma liceale Árpád si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Budapest, ma dovette quasi subito interrompere gli studi per lo scoppio della prima guerra mondiale. Suddito dell’Impero austro-ungarico, combatté sul Carso contro l’esercito italiano, che lo fece prigioniero nel corso dell’offensiva successiva alla disfatta di Caporetto.
Weisz arrivò in Italia nella stagione calcistica 1924-25, ingaggiato dal Padova, che partecipava al campionato di Prima divisione, equivalente all’odierna serie A. Della sua carriera precedente si hanno poche notizie. Si sa solo che l’attività di calciatore correva parallela a un impiego in banca. Nel 1922-23 aveva militato nel Torekves e l’anno seguente nel Makkabi Brno, insieme a Ferenc Hirzer, il primo straniero ingaggiato dalla Juventus della famiglia Agnelli. Nel 1924 fece parte della squadra ungherese che partecipò alle Olimpiadi di Parigi. Ala sinistra molto tecnica, dotato di uno scatto ficcante, a Padova disputò solo sei partite, per motivi probabilmente non legati al rendimento sportivo, considerato che Weisz non prese nemmeno la residenza in città e che l’anno dopo venne ingaggiato dall’Inter. Qui, dopo undici partite e tre gol, segnati nel giro di una settimana, un brutto infortunio pose termine alla sua carriera di calciatore a neanche trent’anni.
Prese avvio, invece, la carriera di uno dei più brillanti allenatori che abbia avuto il calcio europeo, che terminerà nell’Europa devastata dalla guerra il 31 gennaio del 1944 nel campo di Auschwitz, senza quasi lasciare tracce. Soltanto la tenacia – misto di passione sportiva e tensione civile – di Matteo Marani ha riportato alla luce quella vicenda, che ci conduce in un viaggio vertiginoso nelle pieghe dell’Europa occupata dai nazisti e ci consegna un punto di vista inedito e niente affatto rassicurante sull’Italia delle leggi razziali e sulle successive difficoltà della società italiana ad affrancarsi dal passato fascista.
Nel 1926 – l’anno in cui le cronache delle partite cominciano a essere trasmesse per radio – Weisz iniziò il suo apprendistato nello staff tecnico dell’Alessandria sotto la guida di Augusto Rangone, che aveva guidato la Nazionale dal 1922 al 1924 e che la guiderà ancora nel 1928. Alla fine dell’anno tornò all’Inter e la stagione successiva gli fu subito affidata la guida tecnica della prima squadra. Nel 1928 Weisz venne costretto a diventare Veisz, così come il Genoa a diventare Genova, il Milan a diventare Milano e l’Internazionale – concetto indigesto al regime sotto molti punti di vista – a diventare Ambrosiana. Ambrosiana che in quella stagione utilizzò una casacca bianca con una croce rossa al cui centro spiccava un fascio littorio, rinunciando alla tradizionale maglia nerazzurra. Sono gli anni in cui bisogna darsi del voi e salutarsi romanamente, ma gli italiani sono troppo navigati per dare importanza a dettagli così irrilevanti. E poi, si sa, un conto sono le imposizioni ufficiali, un conto è il comportamento quotidiano…
L’inventore degli schemi
Nel 1929-30, dopo un quinto posto nel campionato di esordio 1926-27 e un settimo posto nel campionato 1927-28, l’Inter di Weisz – che nella stagione 1928-29 aveva compiuto un soggiorno di studio e aggiornamento in Sud America su cui si hanno notizie quasi evanescenti – vinse il primo campionato a girone unico – che da allora viene definito, per l’appunto, “girone all’italiana“ – nella storia del calcio italiano, disputato per la prima volta con la denominazione, utilizzata ancora oggi, di Serie A, a cui allora prendevano parte diciotto squadre. A partire dalla stagione 1919-20, la prima disputata dopo tre anni di interruzione a causa della prima guerra mondiale, infatti, il campionato era stato assegnato alla vincente dello scontro diretto tra la vincitrice del campionato della Lega sud e quella del campionato della Lega nord. Nel 1926 il regime fascista aveva provveduto alla riforma del campionato, la cui formula era ritenuta incompatibile con il credo nazionalista. Alla guida della Federazione era stato designato Leandro Arpinati – squadrista della prima ora e federale di Bologna, successivamente caduto in disgrazia dopo essersi scontrato con Achille Starace e inviato per due anni al confino, quindi tenuto costantemente sotto sorveglianza fino al 25 luglio 1943, per finire ucciso il 22 aprile 1945 probabilmente da partigiani comunisti, anche se non aveva accettato la proposta di Mussolini di aderire alla Repubblica sociale – che aveva introdotto la Divisione nazionale, che prevedeva due gironi interregionali, non più costituiti su base geografica, e un girone finale tra le prime classificate dei due gironi, in conseguenza del fatto che la finale con partita unica era ormai diventata un problema di ordine pubblico di difficile gestione, per le rivalità sempre più accese tra le tifoserie avversarie.
La vittoria nel campionato 1929-30 vale di per se stessa un posto nella storia del calcio italiano, posto che invece Weisz non ha mai occupato. Ma i meriti sportivi di Weisz vanno molto oltre. In anni in cui gli allenatori dirigono gli allenamenti in giacca e cravatta al centro del campo, Weisz è il primo a guidare personalmente i giocatori in pantaloncini e maglietta e a provare in allenamento i movimenti della squadra, applicando quelli che molto tempo dopo verranno chiamati schemi. È il primo, anche, a introdurre carichi di lavoro appositamente elaborati e a studiare la composizione delle diete. La cura con cui svolge il suo lavoro lo porta a non trascurare nessun dettaglio, fino a visionare personalmente gli allenamenti e le partite dei ragazzi del settore giovanile, i boys, come si diceva allora con anglismo sgradito al regime. È in questo modo che scopre un ragazzino di sedici anni, che fa debuttare in prima squadra l’anno successivo e che nella stagione dello scudetto vincerà, a neanche vent’anni, la classifica dei cannonieri: Giuseppe Meazza. Ma Weisz è soprattutto un innovatore sul piano tattico: esponente di quella che allora veniva chiamata la scuola danubiana – molto apprezzata in Italia, tanto che nel campionato del 1935 su sedici allenatori di serie A, ben sette erano ungheresi, contro i soli cinque italiani – che sostituiva con passaggi precisi e rasoterra gli avventurosi rilanci che caratterizzavano il gioco di allora, introduce nel campionato italiano il famoso sistema, detto comunemente WM, dalla disposizione dei giocatori in campo. La M identifica i cinque difensori, la W i cinque attaccanti. Nasce il quadrilatero di centrocampo, avanzando i due mediani e arretrando le due mezzeali, il peso del gioco viene redistribuito in modo equo tra tutti e dieci i giocatori, che hanno compiti sia offensivi che difensivi, e si vedono i primi terzini che attaccano. Inventato dal leggendario allenatore dell’Arsenal Herbert Chapman – il cui busto in bronzo si trova ancora oggi all’ingresso del nuovo Emirates Stadium, trasferito dal vecchio stadio di Highbury – è il modulo di gioco che farà grande il Torino, grazie a un altro ebreo ungherese, Ernest Egri Erbstein, e che sarà adottato quasi universalmente fino agli anni sessanta, quando Helenio Herrera si inventerà il libero, arretrando un mediano.
Uomo colto e di buone letture, dallo stile brillante, nel 1930 Weisz, insieme al dirigente dell’Inter Aldo Molinari, pubblicò presso l’editore milanese Alberto Corticelli un manuale intitolato Il giuoco del calcio, prefato da Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della nazionale italiana che vinse i mondiali del 1934 e del 1938, suo grande ammiratore. Nel manuale – una copia è conservata presso la Biblioteca braidense, collocazione 23.4.A.0031 – Weisz espone i principi del gioco, le basi tecniche, i ruoli dei giocatori e i metodi di allenamento, mentre Molinari si occupa degli aspetti regolamentari.
Dopo l’Inter, il Novara e il Bologna.
Dopo un quinto posto nella stagione 1930-31, nel campionato successivo l’Inter non rinnovò il contratto di Weisz, che si trasferì al Bari. È iniziato il ciclo della Juventus di Rosetta e Calligaris, che vincerà cinque scudetti consecutivi, fondando il mito della signora del calcio italiano. Ma il nuovo allenatore, Istvan Toth, un altro ungherese, non riuscì a portare la squadra oltre il sesto posto e l’anno dopo Weisz venne richiamato dal club milanese, ottenendo due secondi posti sempre dietro la squadra bianconera, costruita grazie alla competenza di Carlo Carcano, ma anche alle risorse finanziarie di Edoardo Agnelli, che gli permettevano di avere in squadra i migliori campioni in circolazione. L’Inter, invece, era da tempo in grandi difficoltà economiche, che si risolsero nel 1932, quando alla presidenza del club arrivò Ferdinando Pozzani, uomo ben introdotto nel regime e dai molteplici e redditizi interessi economici, dall’agricoltura al petrolio.
Pozzani rappresenta un punto di svolta nel calcio italiano: è il primo presidente a multare i giocatori e a controllare la loro vita privata, impedisce ai giornalisti sgraditi di assistere alle partite casalinghe all’Arena e, soprattutto, interferisce pesantemente nel lavoro degli allenatori, imponendo loro le formazioni. In dieci anni di presidenza ne cambierà ben otto, esonerando persino Castellazzi subito dopo la vittoria del campionato. Weisz, timido e riservato come lo ricordano tutti, era però uomo di grande dignità e non poteva gradire. Ragion per cui alla fine del campionato 1933-34 lasciò l’Inter prima della scadenza del contratto, pur non avendo nessuna prospettiva concreta. Ancora oggi con 212 presenze sulla panchina dell’Inter occupa il quarto posto nella relativa classifica degli allenatori del club nerazzurro, dietro a Helenio Herrera, Giovanni Trapattoni e Roberto Mancini.
Trovatosi improvvisamente senza squadra, Weisz accettò l’offerta del Novara, che militava in serie B. A Novara restò circa sei mesi, poco più di metà stagione, costruendo la squadra che conquistò il secondo posto del girone A, a soli tre punti dal Genova 1893 – che era retrocesso per la prima volta al termine della stagione precedente dopo aver dominato i primi quarant’anni del calcio italiano – e che l’anno successivo conquistò la prima promozione in serie A. Nel gennaio del 1935, infatti, Weisz venne chiamato a sostituire Laojos Kovács – un altro ungherese – alla guida del Bologna, con cui sarebbe entrato definitivamente nella storia del calcio italiano, ed europeo, proprio mentre gli anni più bui della storia europea stavano per travolgere lui e la sua famiglia.
Solo un ebreo di nazionalità straniera.
Weisz si era sposato con Ilona Rechnitzer, più giovane di lui di dodici anni, il 24 settembre 1929 a Szombathely, la città più antica dell’Ungheria, capoluogo della provincia di Vas, situata al confine con l’Austria. Elena, come si faceva chiamare Ilona in Italia, e Árpád ebbero due figli, Roberto, nato a Milano il 7 luglio 1930, e Clara, nata anch’essa a Milano il 2 ottobre 1934, che decisero di fare battezzare. La dimensione religiosa gli era indifferente e non sembra che abbia frequentato le comunità ebraiche delle città italiane in cui ha vissuto.
A Bologna Weisz trovò una squadra in crisi. Affacciatosi alla ribalta nazionale negli anni Venti, vincitore del campionato nella stagione 1924-25 e in quella 1928-29, anche il Bologna stava soffrendo la superiorità della Juventus di Carcano. Weisz riuscì a rimettere in carreggiata una stagione iniziata con quattro sconfitte consecutive e a chiudere al sesto posto. E l’anno successivo sotto la guida di Wiesz, il Bologna interruppe il dominio juventino, vincendo lo scudetto. Era stato l’ultimo allenatore a vincere prima del quinquennio bianconero ed è l’allenatore che pone fine a quel ciclo. L’anno dopo non solo si ripeté, ma portò il Bologna a vincere a Parigi il Trofeo dell’Esposizione, una sorta di Champions League ante litteram. Dopo aver eliminato il Sochaux e i cecoslovacchi dello Slavia, il Bologna batté in finale i londinesi del Chelsea per 4 a 1. È il 6 giugno del 1937. Tre giorni dopo a Bagnoles-de-l’Orne vengono assassinati Carlo e Nello Rosselli.
Weisz è all’apice della fama, ora anche internazionale. Ha vinto tre scudetti con due squadre diverse – impresa che ancora oggi celebratissimi e strapagati allenatori non sono riusciti a eguagliare – e battuto in un trofeo internazionale i maestri inglesi. La stagione 1937-38 vide il Bologna sempre tra i protagonisti, anche se alla fine arrivò solo un quinto posto, nell’anno del ritorno dell’Inter. Weisz, in scadenza di contratto, ricevette un’offerta economica estremamente allettante dalla Lazio, ma il Bologna rilanciò e riuscì a trattenere il suo allenatore.
Ma nell’Italia del 1938 Weisz diventa improvvisamente solo un ebreo. Anzi, un ebreo di nazionalità straniera. Nell’allucinata realtà delle leggi razziali non contano doti e talenti, né conta essersi conquistate con il proprio lavoro stima e popolarità. Non contano più le esistenze individuali: si diventa un numero senza importanza, perché altri hanno deciso così sulla base di incredibili presupposti ammantati di sinistra scientificità. E tutti si adeguano, senza avvertire il minimo disagio. Così nessuno fiatò, nemmeno a Bologna, la città di allora poco più di trecentomila abitanti che le imprese della squadra di Weisz avevano reso celebre in tutta Europa. Non fiatò il presidente del Bologna, Renato Dall’Ara, industriale reggiano ben introdotto nel regime, cui ancor oggi è dedicato lo stadio di Bologna, dove pure dal 2009 è stata posta una targa che ricorda Weisz e la sua famiglia. Non fiatarono i dirigenti, non fiatarono i suoi giocatori, non fiatarono i tifosi, che lo avevano idolatrato. Non fiatarono i suoi colleghi allenatori, non fiatarono i giornalisti che ne avevano magnificato le gesta. E non fiatarono nemmeno i genitori dei compagni di scuola di suo figlio, quando improvvisamente non si presentò più a scuola, né fiatarono i suoi vicini di casa. Il 22 agosto 1938 Árpád ed Elena, insieme ad altri ottocentomila cittadini stranieri, vennero registrati nell’elenco degli ebrei stranieri residenti nel Regno, voluto da Mussolini in persona con una informativa del 5 agosto. Un elenco così vergognoso, che lo stesso ministero dell’interno pensò di dover secretare. Un elenco che durante l’occupazione tedesca permetterà alle SS di avviare molti ebrei ai campi di sterminio.
Il 16 ottobre 1938, Weisz prese parte all’ultima partita ufficiale nel campionato italiano. Dopo un avvio contrastato, due vittorie e due sconfitte, il Bologna batté in casa proprio la Lazio 2-0. La settimana successiva il campionato si fermò per permettere lo svolgimento di una partita della nazionale, neocampione del mondo per la seconda volta. Nella pausa il Bologna concordò di disputare una partita amichevole, senza i nazionali, contro l’Inter, all’Arena. Il 22 ottobre Weisz si dimise: il 7 settembre il Regio – ah, la monarchia… – decreto legge n. 1381 stabiliva che gli ebrei stranieri che avevano fissato la residenza in Italia dopo il 1 gennaio 1919 avevano sei mesi di tempo per lasciare il paese. Aveva stabilito anche che veniva «considerato ebreo colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica». Dunque chi è ebreo viene stabilito dai persecutori; si costruisce una categoria astratta, cui vengono attribuite arbitrariamente caratteristiche di pericolosità sociale senza alcun rapporto con la realtà, e si decidono arbitrariamente i criteri di appartenenza alla categoria. Il 30 ottobre il Bologna vinse 3-1 a Novara, con in panchina l’allenatore austriaco Felsner, con cui la squadra felsinea aveva vinto i primi due scudetti, che evidentemente non si pose troppe questioni. Lazio, Inter, Novara: in pochi giorni, tornano tutte le squadre che hanno scandito la carriera di Weisz. Alla fine della stagione il Bologna vincerà il suo quinto scudetto. Ma Weisz è già lontano e già dimenticato. “Il Resto del Carlino“ liquida l’avvicendamento in poche righe, alludendo a ciò che tutti sanno, ma è meglio non scrivere esplicitamente. Figurarsi se vale la pena spendere qualche riflessione. Addirittura solo una la riga che gli dedica il “Calcio Illustrato“, dopo aver annunciato l’arrivo di Felsner: «Quanto a Veisz, sembra che lascerà l’Italia a fine anno». E dire che al settimanale milanese Weisz aveva collaborato a più riprese, con articoli di tecnica e di tattica di grande profondità, frequentandone assiduamente la redazione durante il soggiorno a Milano.
Vessazioni sempre più umilianti.
Weisz e la sua famiglia lasciarono l’Italia il 10 gennaio del 1939 per sistemarsi a Parigi. Qui Weisz cercò di trovare un ingaggio, contando sulla sua fama e sulle sue conoscenze. Riuscì ad accasarsi in Olanda, a Dordrecht, città in cui arrivò ai primi di aprile, grazie a Karel Lotsy, dirigente del Dordrechtschte football club. Il calcio olandese era totalmente dilettantistico – il primo calciatore professionista sarà il giovane Johan Cruijff a metà degli anni sessanta – e la squadra di Dordrecht, una città di poco più di cinquantamila abitanti situata al confine con la Germania, lottava costantemente per evitare la retrocessione; ma per Weisz l’offerta rappresentava l’unica possibilità di dare una sistemazione alla sua famiglia. Lotsy, che nel dopoguerra allenerà la nazionale olandese, era un profondo conoscitore del calcio internazionale e, saputo dei problemi di Weisz, si impegnò a fondo per riuscire a portarlo in Olanda, con l’obiettivo principale di migliorare il livello del calcio olandese in generale, più che quello della sua squadra in particolare. Weisz arrivò a stagione in corso e riuscì a salvare il Dordrecht dalla retrocessione, vincendo lo spareggio contro l’Uvv Utrecht. E l’anno dopo ottenne un quinto posto nel girone vinto dal Feyenoord, battuto clamorosamente in casa. E lo stesso risultato ottenne la stagione successiva. Si tratta del miglior risultato nella storia del club, che oggi milita in seconda divisione, ottenuto con una squadra di ragazzini, studenti e lavoratori.
Ma la storia stava precipitando. L’Europa degli anni trenta era diventata progressivamente un luogo inospitale per gli ebrei; il clima di esasperato nazionalismo che attraversava le società europee aveva portato alla luce con una violenza inaudita diffidenze e discriminazioni secolari. Ma dal marzo del 1938 cominciò a diventare l’Europa dell’occupazione tedesca. Prima l’annessione della Cecoslovacchia, garantita dall’effimero patto di Monaco, quindi l’Anschluss, l’annessione dell’Austria. Poi il 1 settembre del 1939 l’invasione della Polonia segnò l’inizio dell’offensiva tedesca e, dopo gli otto mesi della drôle de guerre, vennero attaccate prima la Danimarca e la Norvegia, quindi la Francia, passando per il neutrale Belgio, il neutrale Lussemburgo e la neutrale Olanda. È il 10 maggio del 1940. Il 14 l’Olanda si arrende. Hitler decide di gestire l’occupazione attraverso un governo olandese, ma questa sottile intercapedine non ha alcuna forza, e forse volontà, per mutare il corso delle cose. Il regime di occupazione, infatti, non solo piega la società olandese alle esigenze dello sforzo bellico tedesco, ma dà priorità assoluta alla persecuzione razziale. Weisz sta terminando il suo secondo campionato con il Dordrecht. Nella prima parte del suo soggiorno olandese non può non aver avvertito l’inesorabile avanzare della minaccia nazista; quelli che l’hanno conosciuto, ritrovati e interpellati da Marani quasi settant’anni dopo, sono concordi nel dire che Weisz usciva di rado e cercava di non farsi fotografare. E nel dire che quando si accennava all’Italia diventava subito cupo. Ma ora incominciano uno dopo l’altro gli odiosi provvedimenti amministrativi che restringeranno inesorabilmente gli spazi di vita dei sempre meno cittadini ebrei, stranieri o olandesi a questo punto non fa più differenza, fino all’annientamento. Il campionato 1940-41, pur, come abbiamo visto, brillante sotto l’aspetto sportivo, è scandito da vessazioni sempre più umilianti, fino, dal maggio del 1942, alla stella gialla da portare sulla giacca, fino a poter uscire di casa soltanto tra le due e le cinque del pomeriggio.
Le tracce perse.
Finché il 29 settembre del 1941 dal Commissariato di polizia arriva una comunicazione ai dirigenti del Dordrecht, che ricorda che in forza delle disposizioni vigenti dal 15 settembre 1941 sul «pubblico comportamento degli ebrei, ad Árpád Weisz, allenatore della vostra associazione, è proibito di trovarsi su un terreno dove sono organizzate partite accessibili per il pubblico». Poi il consiglio-minaccia «di non assumere o tenere nel servizio della Vostra associazione degli ebrei, perché nelle circostanze attuali potrebbe avere conseguenze molto dannose per la Vostra associazione».
Da questo punto in avanti le tracce della famiglia Weisz incominciano a perdersi a poco a poco, fino a diventare evanescenti. È stato Matteo Marani a trovare i documenti che ci permettono di fissare i passaggi che hanno condotto i Weisz ad Auschwitz. Ma senza avere più alcuna possibilità di disegnare i contorni della loro vicenda umana. Vite inghiottite nel nulla senza lasciare un segno, come milioni di altre. La famiglia Weisz venne arrestata la mattina del 2 agosto 1942 dalla Gestapo. Il documento è ancora oggi conservato nell’archivio della città di Dordrecht. Non sappiamo cosa è successo in quel lungo ultimo anno. È quasi certo che siano stati i dirigenti della squadra del Dordrecht, benestanti, ma non ricchi, a provvedere alle necessità economiche sopravvenute. I compensi degli allenatori di allora, infatti, non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli degli allenatori di oggi e in ogni caso, qualora Weisz fosse stato in grado con i suoi guadagni di costruirsi un comunque piccolo patrimonio, non ne avrebbe potuto disporre, poiché una direttiva del governo olandese aveva provveduto a congelare i patrimoni dei cittadini considerati ebrei. In queste condizioni non era possibile neanche pensare di uscire dall’Olanda per trovare rifugio. E dove, poi. Uniche mete sicure per sfuggire alla persecuzione nazista erano le Americhe. In quel 1942 l’Europa era completamente schiacciata sotto il tallone nazista; l’Inghilterra sembrava dover capitolare da un momento all’altro e sulle possibilità della Svizzera di far valere la propria neutralità non scommetteva nessuno.
Qualche giorno dopo, i Weisz vennero trasferiti nel campo di Westerbork, nel nord dell’Olanda, lo stesso da cui passò Anna Frank. Lo sappiamo perché nel museo costruito per custodire la memoria del campo sono conservati i registri con i nomi di coloro che vennero avviati nei campi di sterminio: 107.000 ebrei, 245 sinti e qualche decina di partigiani. Il treno con i Weisz partì venerdì 2 ottobre. Elena, Roberto e Clara vennero avviati alla camera a gas il 5 ottobre, appena scesi dal treno, come risulta dal Kalendarium di Auschwitz, la cronologia degli avvenimenti del campo redatta da Danuta Czech, utilizzando i documenti dell’amministrazione del campo che sono giunti fino a noi. Clara aveva compiuto otto anni da tre giorni, Roberto aveva dodici anni, Elena avrebbe compiuto 34 anni due giorni dopo. Di Árpád non c’è traccia. La sua morte è datata 31 gennaio 1944. L’ipotesi più probabile è che abbia fatto parte dei trecento uomini fatti scendere a Cosel – come risulta sempre dal Kalendarium – per essere avviati nei campi di lavoro in Alta Slesia. In quel 1942, infatti, Weisz è un uomo di quarantasei anni ancora nel pieno delle forze, anche se da un anno non può quasi uscire di casa, figurarsi frequentare i campi di allenamento. Dunque, prima di essere annientato, può servire allo sforzo bellico del Reich. Ma non sappiamo proprio come sia arrivato a quel gennaio del 1944. Anzi non sappiamo proprio cosa dire. Possiamo solo chinare il capo e cercare di non sfuggire a ciò che è stato. Anche se a Clara, Roberto, Elena e Árpád non potrà servire più a niente.
Fonte: Storiedicalcio.