Video Inno Usa 94 “Gloryland”.

Da Sky Sport.

Oggi si svolgono le elezioni presidenziali negli Stati Uniti di metà mandato. Ripercorriamo sin da tempi più recenti l’evoluzione del calcio nel paese stelle e strisce. Partiamo in maniera simbolica dal 1980 in quella che viene ricordata come la partita del “miracolo “dell’erba infatti viene oggi ricordata come “Miracle on grass”, chiaro riferimento al “Miracle on ice” delle Olimpiadi invernali del 1980, quando la squadra americana di hockey, composta da dilettanti e giocatori di college, strappò la medaglia d’oro alla favoritissima Russia, in piena Guerra Fredda.

Dal 3 al 26 giugno del 2016, gli Stati Uniti ospitarono l’edizione del centenario della Copa América, il massimo torneo per nazionali della federazione sudamericana. Gli inviti a rappresentative di altri continenti (o subcontinenti, come in questo caso) non sono stati infrequenti in passato, ma è la prima volta che le partite si disputano in una di esse.

In questi due terzi di secolo, dal 1950 ad oggi, il calcio e gli USA si sono annusati, hanno provato a capirsi, poi ad adattarsi l’uno alle esigenze dell’altro, ma la relazione non è mai decollata. Solo negli ultimi anni il connubio ha iniziato a funzionare senza troppi compromessi.

Perché agli Americani non piace(va) il calcio?

Nel 1620, poco dopo lo sbarco della Mayflower nel New England, i Padri Pellegrini scoprirono che i nativi americani, soprattutto nei mesi estivi, avevano l’abitudine di sfidarsi lungo le spiagge ad un gioco curioso. Due squadre composte da trenta-quaranta uomini si contendevano una palla fatta di pelle di cervo. Alle due estremità del campo, lungo circa un miglio, erano conficcate due coppie di pali, in mezzo ai quali bisognava far passare la sfera. La partita poteva andare avanti per un’intera giornata, a volte anche due. Lo chiamavano “pasuckquakkohowog”, ossia “Essi si riuniscono per giocare a palla col piede”.

Nonostante potesse contare su questo antenato comune, il calcio vero, quello istituzionalizzato dagli inglesi, ha fatto parecchia fatica a ritagliarsi spazio nel panorama sportivo americano, intasato dagli autarchici football, baseball, basket ed hockey.

Potremmo partire chiedendoci cosa hanno questi sport che il calcio non ha, aldilà della tradizione. La risposta più immediata è esprimibile in termini quantitativi: nel basket le partite terminano sempre con punteggi altissimi, nel football e nell’hockey i contatti fisici sono mediamente più frequenti e più duri, nella stagione del baseball si gioca un’infinità di partite in più.

«Mancano Le regole nel calcio. Per questo una partita che finisce senza reti viene definita combattuta».

Inoltre, la fluidità del calcio si presta poco e male all’approccio analitico a cui gli americani sono abituati. Gli stessi statunitensi spiegano il concetto così: «Prendete il football per esempio. Ogni dieci-quindici secondi la squadra con il pallone fa una giocata che la farà avanzare o arretrare sul campo e quel movimento costituisce un accadimento. Lo stesso principio si applica al basket e al baseball. Siamo soliti ricevere costanti aggiornamenti che rappresentano lo status della partita che si sta giocando. Nel calcio solo i gol replicano questa idea, ma vengono realizzati di rado. Per questo ci annoiamo finché qualcuno non segna: è come se non fosse successo niente per noi. Essenzialmente noi seguiamo gli sport in maniera totalmente diversa».

Altri, tra il serio e il faceto, pensano che la ragione principale sia meno sofisticata: «I grandi sport americani non sono tali per via dello sport. Ma perché ci si sbronza, si mangia e si guardano le pubblicità. In una partita di calcio gli spot sono ridotti all’osso e dopo 90 minuti è finita. È piuttosto difficile mangiare e ubriacarsi in così poco tempo. Ma se consideri un grandioso gioco come il football americano, in cui dopo ogni segnatura c’è un’interruzione pubblicitaria, seguita dal tentativo di conversione, seguita da un’interruzione pubblicitaria, seguita dal kick-off che è immediatamente seguito da un’interruzione pubblicitaria, hai tanto tempo per bere una birra, fare la pipì o cucinare un hamburger».

La mancanza di frequenti spazi da dedicare alle pubblicità, ha reso anche meno appetibile, perché meno remunerativa, la trasmissione delle partite da parte dei grandi network televisivi, che hanno preferito investire prima di tutto sugli altri sport.

C’è chi spiega il disallineamento degli USA rispetto alle altre nazioni nel praticare the beautiful game, con motivazioni addirittura di carattere morale. «Il “Sogno Americano” è una storia di giustizia. Chi è onesto, lavora sodo e persevera ottiene quello che merita», mentre «il calcio è la morte della giustizia sportiva», ad esempio perché «un gol fa una grande differenza, ma una partita di Coppa del Mondo ha una media di 2,86 reti a partita e l’arbitro può giocare un ruolo enorme nell’assegnazione di un gol». Per non parlare di quegli odiosi «giocatori che fingono gli infortuni».

Il Cagliari in affitto a Chicago

Prima di trovare stabilità con l’attuale MLS, la storia del calcio nel nord America è stata sostanzialmente il racconto della nascita, del declino e del fallimento di un gran numero di leghe.

Pare che il successo dell’Inghilterra nei mondiali del 1966 ebbe una vasta eco oltreoceano, anche grazie al traino del documentario ufficiale del torneo, “Goal!”. La lega professionistica dell’epoca si chiamava American Soccer League, ma difatti era un campionato dilettantistico di scarso interesse. Poi c’era la International Soccer League, ossia un torneo estivo a cui partecipavano poche squadre locali e molti club sudamericani ed europei (anche le italiane Lanerossi Vicenza, Mantova, Sampdoria e Varese vi presero parte).

A complicare l’assunto, nell’estate del 1967 partirono due nuovi tornei: la National Professional Soccer League (che inglobò la ISL) e la United Soccer Association; la seconda venne riconosciuta dalla Federazione statunitense e dalla FIFA. Con poche settimane per organizzare quest’ultimo campionato, Jack Cooke, il promotore, doveva inventarsi qualcosa. Invece di allestire i roster giocatore per giocatore, pensò bene di “affittare” intere squadre europee e sudamericane ed assegnarle alle 12 città del campionato. In linea di massima gli abbinamenti strizzavano l’occhio alle origini degli abitanti dei posti in cui si giocava. I Boston Rovers, ad esempio, non erano altro che gli irlandesi dello Shamrock sotto mentite spoglie; i Chicago Mustangs, invece, erano il grande Cagliari di quegli anni, sebbene privo di Gigi Riva, infortunato.

chicago mustangs

Il Cagliari travestito da Chicago Mustangs.

Ricordi di quell’esperienza sono stati raccolti un paio di anni fa dal Guerin Sportivo. Si tratta di memorie per lo più comiche. Il portiere Adriano Reginato: «Provate un po’ voi ad avere metà area di porta in erba e l’altra metà in terra battuta. Eppure era così: giocavamo in stadi da baseball adattati al calcio. Appena ho visto il terreno mi sono messo le mani nei capelli: e adesso che tacchetti uso?». «In qualche campo c’era anche la montagnola del lanciatore» precisa il centrocampista Ricciotti Greatti. «Ho dei bellissimi ricordi di quel viaggio. Il nostro quartier generale era un hotel di proprietà di Frank Sinatra, in cui ognuno di noi aveva a disposizione tre camere. Allenamento nel parco, relax in piscina e grandi feste con mille invitati».

Al centrocampista Pierluigi Cera è stato chiesto di raccontare la partita contro il Toronto City (gli scozzesi dell’Hibernian), terminata con un’invasione di campo, dopo che i sardi avevano lasciato il rettangolo di gioco per protestare contro una decisione del direttore di gara: «L’arbitro era un omone alto due metri, ma qualcuno entrò in campo con un bastone di legno e lo colpì duro. Fu una tournée che calcisticamente non sapeva di nulla. Giocavamo contro queste squadre britanniche e sudamericane e ogni volta bisognava stare attenti, perché se non finiva direttamente in rissa ci si andava comunque vicino».

Nemmeno il pubblico americano aveva apprezzato più di tanto l’esperimento, vista la deludente media di 8.000 spettatori a partita. Nel 1968, le due leghe create l’anno prima si fusero nella North American Soccer League.

Gli anni d’oro dei grandi Cosmos

Dopo qualche stagione di scarso successo, in cui la NASL sembrava destinata a ripetere le fallimentari esperienze dei suoi predecessori, nel 1975, mentre la guerra del Vietnam volgeva al termine, la nuova lega svoltò con l’acquisto di Pelé da parte dei New York Cosmos, franchigia posseduta da Steve Ross, CEO della Warner.

Per Fabrizio Gabrielli (che alla NASL ha dedicato questo suo lavoro), «A Steve Ross va riconosciuto il merito di aver forgiato in quella fucina (Stati Uniti anni ’70), un saldo e coriaceo legame tra calcio e cultura pop ben prima che tale assioma venisse mandato a memoria. Il pubblico americano aveva bisogno di specchiarsi nel calcio come al cinema. Paillettes, ingaggi milionari, protagonismo portato all’estremo. Nella NASL – Cosmos in testa, e a seguire tutti gli altri – nessuno puntava ad avere una squadra. L’aspetto tecnico era irrilevante. Erano le individualità a spiccare, proprio per il loro essere un po’ star di Hollywood senza Hollywood intorno, ma con quattro pali e due traverse».

Dopo Pelé arrivarono, tra gli altri, Chinaglia, Beckenbauer, Carlos Alberto, Gordon Banks, Bobby Moore, Eusébio, George Best, Johan Cruijff. A possedere (interamente o in parte) le franchigie erano grandi imprenditori e celebrità planetarie del calibro di Elton John. Sembrava un carnevale destinato a non concludersi mai. E invece, nel 1984 la NASL, che ormai attraeva sempre meno spettatori e si era ridotta a sole nove squadre, dichiarò il fallimento: le spese folli per pagare gli ingaggi non erano più sostenibili, specie dopo il mancato rinnovo del contratto televisivo con ABC.

Il declino della NASL non fu impedito nemmeno dal tentativo di americanizzazione del regolamento del calcio. Ad esempio, una cosa che agli yankees proprio non va giù è l’idea che una partita possa terminare senza vincitori né vinti: per loro «pareggiare è come baciare una sorella» (pare che il primo ad avere usato questa espressione sia stato Eddie Erdelatz, coach della squadra di football della Navy, dopo uno 0-0 contro Duke d’inizio anni ’50). Così, ogni match della NASL che terminava in parità proseguiva con gli shooutout, i rigori in movimento.

Carlos Alberto e Beckenbauer alle prese con gli shooutout.

Per provare ad accrescere lo spettacolo, la regola del fuorigioco vigeva solo nelle ultime 35 yard (32 metri) del campo; ogni gol segnato dava un punto-extra, la vittoria nei regolamentari sei punti, quella agli shootout soltanto uno.

Si venne cautamente incontro pure alle perversioni statistiche del popolo, poiché la palma di capocannoniere veniva assegnata tenendo conto anche degli assist: nella classifica marcatori si attribuivano due punti per ogni rete segnata e uno per ogni assistenza fornita.

Sei contro sei

All’inizio degli anni ’70, la NASL iniziò a cullare l’idea di un torneo da giocare al coperto nei mesi invernali. Nel 1971 la formula venne sperimentata con un quadrangolare, vinto dai Dallas Tornado. Poi venne riproposta, con più partecipanti, dal 1979 al 1984: anche Chinaglia ha giocato qualche partita indoor.

L’11 febbraio del 1974, presso lo Spectrum di Philadelphia – l’arena che sarebbe presto stata folgorata dalle schiacciate di Julius Erving – gli Atoms, padroni di casa e poco prima incoronati campioni della NASL outdoor, sfidarono l’Armata Rossa (l’attuale CSKA Mosca). La partita, suddivisa in tre tempi da 20 minuti, venne vinta per 6-3 dai sovietici. Tra gli 11.790 spettatori di quella sera c’era anche Ed Tepper, imprenditore edile e proprietario dei Wings, la squadra di lacrosse di Philadelphia. Sebbene fosse venuto allo Spectrum principalmente per dare un’occhiata all’AstroTurf, il manto sintetico che era stato posato sul ghiaccio del campo da hockey, Tepper venne folgorato da ciò che vide in superficie, e soprattutto dall’entusiasmo dei tifosi. Aveva compreso il potenziale che quello sport poteva avere in America. «Ma dobbiamo fare qualcosa per renderlo più eccitante», pensò. Fu in quel momento che nacque la MISL: la Major Indoor Soccer League.

Earl Foreman, il primo commissioner della lega (che partì ufficialmente nel 1978), ha ricordato a FourFourTwo: «Quel che abbiamo fatto è stato catturare l’artisticità del gioco all’aperto a aggiungerci il gusto americano. I punteggi sono alti e ci sono i time out. La partita è suddivisa in quattro tempi di quindici minuti. Abbiamo il contatto fisico e le regole sono semplici. Tutti possono apprezzarlo». Come in occasione della partita contro i moscoviti, si giocava sei contro sei sull’erba artificiale all’interno di un campo da hockey, con le sponde ad impedire l’uscita della palla, che era arancione per migliorarne la visibilità: «Pensavo al calcio indoor come ad una forma di hockey in cui si può vedere il puck» e i giocatori «non devono indossare l’elmetto», spiegava Tepper in un’intervista di fine anni ’80.

Ma le grandi innovazioni introdotte dalla MISL nell’universo sportivo americano erano soprattutto nel contorno. I giocatori entravano in campo avvolti da nubi di fumo con musica contemporanea in diffusione, che non si arrestava nemmeno dopo il fischio d’inizio. Luci laser, fuochi d’artificio e le immancabili cheerleader completavano il quadro. Nella sede della NBA, che allora non si era ancora spinta oltre l’organetto suonato durante le azioni, qualcuno stava prendendo appunti. L’inglese Andrew Chapman ha raccontato: «Quando ero con i Baltimore Blast, i giocatori dovevano spuntare dalla riproduzione di una navicella spaziale che calava dall’alto, facendo impazzire la folla. Per un tipo che veniva da una casa popolare nell’East End era difficile da credere». I Cleveland Force, invece, erano accompagnati in campo da Darth Vader, mentre venivano attenuate le luci e riprodotta la colonna sonora di Star Wars.

In campo, complici le sponde e le sue dimensioni ridotte, avevano luogo delle sparatorie degne della scena madre di “Scarface”: si vedevano dai dieci ai venti gol a partita; un incontro del 1980 finì con 165 tiri in porta.

Per il portiere americano Bob Rigby, che aveva giocato anche in NASL «Un pazzo deve aver inventato questo gioco. È uno zoo, un circo. Non posso credere che qualcuno lo prenda seriamente, ma lo fanno. È un flipper umano».

Al pubblico in effetti questo gioco piaceva, eccome. Anche perché dopo la chiusura della NASL, la MISL era rimasta la cosa più simile al calcio ad avere un certo seguito in America. Nel 1987 gara-7 di finale tra i Dallas Sidekicks e i Tacoma Stars fu seguita da 21.728 spettatori. Spettatori spesso riottosi: Craig Allen, nativo dell’isola britannica di Guernsey ed ex-giocatore di Cleveland, ha ricordato che a Baltimora gli lanciavano lattine e palle da golf e che ogni tanto qualche giocatore si ritrovava a fare a pugni con un tifoso.

Contribuì alla popolarità della lega la presenza di moltissimi atleti locali, poiché il regolamento prevedeva che 12 dei 16 elementi del roster fossero americani. Tuttavia, i campi sintetici della MISL furono calpestati anche da leggende a fine carriera come Neeskens ed Eusébio, attratti da stipendi che allora erano mediamente superiori, e di molto, a quelli del calcio europeo.

La mancanza di un tetto salariale e la tendenza dei proprietari ad allentare i cordoni della borsa oltre le loro reali capacità soffocarono ben presto anche la MISL. Nonostante il suo inventore la ritenesse «perfetta per la tv», poiché «si poteva vedere l’intero campo e c’erano i time-out per le televendite di rasoi», la lega non riuscì a strappare un contratto per il prime-time televisivo. A poco a poco le franchigie fallirono e nel 1990 la MISL dovette chiudere i battenti.

Americanizzazione vs omologazione: scontro finale

Proprio nel 1990 gli Stati Uniti tornarono a partecipare ad un Mondiale, a quarant’anni di distanza dall’ultima volta, grazie ad un gol segnato da Paul Caligiuri nel match di qualificazione contro Trinidad e Tobago, con un tiro da oltre 30 metri.

Questo momento è stato ribattezzato “The Shot Heard Round the World”, un’espressione originariamente riferita al primo sparo della Rivoluzione Americana.

Già un anno prima, da Zurigo era arrivata una notizia altrettanto importante: il Congresso della FIFA aveva dato agli USA la possibilità di ospitare la Coppa del Mondo del 1994. Ad una condizione: doveva essere creata una nuova lega professionistica.

Jim Paglia, presidente del comitato organizzatore “World Cup Chicago ’94”, che aveva assicurato alla “Windy City” cerimonia e partita inaugurale del torneo, era ancora dell’idea che il calcio, per funzionare a quelle latitudini, andasse americanizzato. La sua proposta alla federcalcio a stelle e strisce si chiamava “ProZone”, un gioco su cui aveva lavorato per anni.

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I campi (da costruire in complessi comprendenti parchi divertimento e centri commerciali) sarebbero stati suddivisi in varie zone da linee colorate, che avrebbero avuto lo scopo di limitare il movimento dei giocatori, i quali non potevano uscire dai settori di loro competenza. Essi avrebbero indossato maglie di colori diversi a seconda del ruolo e i loro gol avrebbero avuto un valore differente in base alla zona dalla quale si calciava: la marcatura del centravanti sarebbe valsa un punto, quella di un centrocampista due, quella di un difensore tre, più mezzo punto addizionale se la palla fosse finita tra i pali della porta tradizionale e quelli di una porta esterna più grande. A spiegarlo sembra complicatissimo, ma Paglia ha ricordato come il 90-95% degli spettatori che avevano assistito agli incontri dimostrativi, ignari delle regole, erano riusciti a comprenderle nei primi dodici minuti di gioco.

Tuttavia, nella votazione finale nessun membro della federcalcio si espresse a favore della proposta di Paglia, mentre 18 scelsero quella più tradizionale della Major League Soccer, la lega dei giorni nostri. Una MLS che comunque ha sempre presentato alcuni classici elementi strutturali dello sport statunitense: niente retrocessioni, due conference, playoff e salary cap. Nelle prime tre stagioni si usò anche il tempo effettivo (col cronometro che scorreva a ritroso) e gli shootout in caso di parità, ma già nel 2000 vennero aboliti entrambi.

Tempi moderni

Dopo le tre sconfitte di Italia ’90, dagli Stati Uniti del ’94 ci si aspettava al massimo una grande cerimonia inaugurale. E invece:

– il cantante cubano Jon Secada casca da una piattaforma levitante, si sloga la spalla, ma continua stoicamente a cantare incastrato in un buco della scenografia;

– anche Oprah Winfrey, presentatrice dell’evento, cade dalle scale del palco;

– Diana Ross sente la pressione e fallisce dal dischetto, facendo calare il gelo sullo stadio.

Sul campo, però, le cose vanno molto meglio, tant’è che grazie al pareggio contro la Svizzera di Chapuisat e la vittoria sulla Colombia, la nazionale americana si qualifica agli ottavi, dove cede solo 0-1 ai futuri campioni del Brasile. Da allora l’USMNT non ha più mancato un appuntamento iridato, arrivando ai quarti nel 2002.

Bazzecole, comunque, se paragonate ai risultati delle campionesse della nazionale femminile, che dal 1990 hanno portato a casa tre Mondiali e quattro medaglie d’oro olimpiche ed oggi avanzano la sacrosanta pretesa di essere pagate quanto i maschi.

La finale dell’ultimo Mondiale rosa, in cui l’USWNT ha superato 5-2 il Giappone, è stata seguita da una media di 25,4 milioni di americani, diventando la partita di calcio più vista nella storia del Paese e superando persino il numero di telespettatori di ogni singola gara delle scorse finali NBA e delle World Series di baseball. La dimostrazione che ormai il fútbol, se di alto livello, può avere successo negli Stati Uniti.

Del resto, rispetto a qualche decennio fa, qualcosa è cambiata nella società americana. Quando il calcio muoveva i primi difficoltosi passi, i pochi a seguirlo provenivano soprattutto dalle minoranze etniche del paese, ispanici in testa. Oggi, quelle minoranze, si fa anche fatica a considerarle tali: ad esempio, solo le persone di origini latine o ispaniche rappresentano circa il 18% del totale; una percentuale destinata a crescere fino al 23% entro il 2035. Il calcio ruba i cuori soprattutto dei più giovani. Oltre tre milioni di bambini americani ci giocano, contro i soli centomila del 1974. Anche le mamme sono contente, vista la sempre più nota e dibattuta questione dei traumi che possono conseguire giocando a football.

La MLS sta svolgendo bene la sua parte. Dopo che le prime stagioni si erano rivelate tutt’altro che entusiasmanti (scarso interesse da parte dei tifosi e perdite economiche per le franchigie) a inizio millennio la lega del commissioner Don Garber ha iniziato ad investire con oculatezza su infrastrutture (attraverso la costruzione di stadi appositamente dedicati al calcio), settori giovanili e comunicazione. La lega, in continua espansione nel numero di squadre partecipanti, può contare su una buona copertura sui canali nazionali e all’estero; anche perché, da Beckham in poi, sono approdati fuoriclasse non proprio nel fiore degli anni, ma nemmeno da rottamare. La risposta del pubblico non si è fatta attendere: gli stadi della MLS possono vantare una media spettatori (oltre le 20.000 unità) superiore a quella delle arene della NBA e della NHL (ovviamente anche per la maggiore capienza degli impianti) e qualche rivalità più o meno credibile tra tifosi, come quella tra Seattle e Portland o il derby di New York.

Probabilmente, per fare l’ultimo passo e diventare mainstream 365 giorni all’anno, il soccer ha bisogno di essere preso per mano da una stella globale nata in casa. Un idolo locale capace di colpire nell’immaginario collettivo. Un nuovo Michael Jordan che rimanga sospeso in aria a gambe divaricate e con la lingua di fuori non per una schiacciata, ma per rovesciare la palla sul fondo di una porta, come Pelé in “Fuga per la vittoria”.

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