Cos’era il calcio per noi bambini degli anni  ’80 e ’90? Si giocava tutto il giorno per strada, tra buche e gobbe dell’asfalto, quando c’era (la via adiacente dove abitavo è stata asfaltata nei primi anni ’90), nei terreni incolti, tipo per esempio” Padula Cupa”, la zona più padulosa ed umida di Leverano che tra poco verrà trasformata in un grande parco ambientale. Le porte? Erano le serrande dei garage, con un gran frastuono che infastidiva i vicini, ma tutti avevano un bambino nella combriccola e sopportavano malvolentieri, anche se qualche volta i palloni venivano sequestrati e non restituiti dai più vecchi, oppure bucati davanti a tutti, come un novello e sadico sacrificio divino. Pali e traverse venivano disegnati con il gesso sul muro, non sempre intonacato; oppure si usavano quattro mattoni e si occupava la strada finché il sole non tramontava.

Quando poi si cresceva, si andava a giocare nel campo di calcio “vero”. A Leverano, ad esempio, nell’incredibile “Campo Comunale” a ridosso dell’Oleificio della Riforma Fondiaria e della Cantina Sociale, campo che quando ci giocavi sentivi l’odore della sansa olivicola oppure della lavorazione delle uve in autunno. Imprese una a fianco all’altra, sorte sul finire degli anni ’50, volute dalla classe politica dell’epoca in primis dalla Democrazia Cristiana guidata dal Dottor Antonio Biasi.
Cooperative agricole che segnavano il riscatto sociale dei numerosi contadini ed operai leveranesi, nate sull’ottimo esempio della Cassa Rurale ed Artigiana di Leverano, banca cooperativa fondata nel luglio del 1952 sempre per volere della politica, del clero, degli artigiani e contadini del posto uniti tutti insieme  in un percorso di appartenenza  identitario finalizzato alla crescita economica e sociale per la propria comunità.
Tutti insieme, tutti uniti da uno scopo di rinascita per se stessi e per il proprio paese.
Uomini e donne immortali nelle pagine della storia di Leverano degli ultimi 70 anni.
Il “Comunale” con le sue mura basse e rustiche a due passi dal mare di Porto Cesareo. Qui l’erba non cresceva perché decine, centinaia di bambini e ragazzi si alternavano per partite e allenamenti senza un momento di pausa, sette giorni su sette. Un po’ d’erba era soltanto vicino alle bandierine del calcio d’angolo, il terreno di friccio grigiastro che quando cadevi imploravi il mondo intero, le ginocchia regolarmente sbucciate con lividi di sangue ed il massaggiatore che si avvicinava a soccorrerti con secchio di acqua fredda e spugna tipo incontro di boxe. Ovunque la palla rimbalzava irregolare perché un ciottolo, una buca, un ciuffo d’erba rendeva il controllo difficilissimo, eppure i ragazzi allenavano in questo modo i riflessi e per gli avversari era davvero difficile eguagliare quelle movenze scattanti, un po’ selvatiche. Entrare in scivolata era impresa per uomini veri, e la pelle abrasa dal terreno arido restava come un marchio da mostrare per settimane e mesi. Qualcuno ne porta ancora i segni.

Sotto la pioggia, ci si sentiva giovani eroi perché si combatteva metro per metro, coperti di fango. Guai a chi tirava indietro il piede per paura. Guai a cercare la giocata di fino, perché per alzare la palla occorreva colpirla con la punta, senza tante storie. Era l’Italia di Bearzot e Trapattoni, di Claudio Gentile, e persino Maradona aveva segnato tirando di punta, nel fango di Marassi.

Eravamo appena ragazzi, bravi ragazzi, e il sabato sera si stava dentro casa a dormire presto perché la domenica le partite iniziavano anche alle 8.15, e poi ne seguivano così tante che anche per l’ora di pranzo non si faceva in tempo a finire, e i genitori si lamentavano per le tagliatelle fuori tempo massimo. Ma soprattutto, giocare non costava niente: bastava comprare le scarpette coi tacchetti di gomma, quelli bassi, perché il primo dazio da pagare a quel campo duro come cemento erano i calli sulla pianta del piede. Qualcuno, più ardito, acquistava anche le scarpe con i tacchi di alluminio, che si svitavano e avvitavano, ma venivano usati solo per poche trasferte, nei campi più “borghesi” dove l’erba era vera, come i campi che si vedevano in televisione.

Il resto era tutto fornito dalla società: ed erano piccole società, con un allenatore che era insieme segretario, presidente, secondo padre. I borsoni, le maglie, le divise, le tute, erano tutte offerte, grazie a qualche sponsor.

Oggi è tutto diverso.

I bambini non giocano più in strada. Per tirare i primi calci, devono pagare quote di iscrizione alla scuola calcio. Il “Comunale” sarà coperto da un manto di erba sintetica. E l’Italia fa brutte figuracce ai Mondiali, o non ci arriva neppure. Paolo Rossi, Schillaci, Baggio, Vieri, Totti e Del Piero non esistono più.

Avevamo un sogno, da bambini, che è continuato anche in età adulta, quando ai sogni non si crede più. Anche se la partita di ieri sera di Champions League tra Juventus ed Ajax, che ha visto i giovani sconosciuti”lancieri” di Amsterdam imporsi sui campioni vip milionari bianconeri, ci spinge ancora a credere nella bellezza dei sogni che solo il calcio riesce a trasmettere.

Sport in cui non si deve dare nulla di scontato. Questo è il suo grande fascino.

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