Ha avuto uno strano destino Azeglio Vicini, c.t. dell’Italia dal 1986 al 1991 morto oggi a 84 anni. Il primo pensiero che il suo nome richiama è la sconfitta, in semifinale, in uno dei Mondiali più dolorosi della nostra storia (e non solo perché si chiamava Italia 90, cioè si giocava in casa). Chi ha l’età minima per ricordarlo, non dimenticherà mai quell’Italia-Argentina, con l’uscita suicida di Zenga sul colpo di testa di Caniggia. La semifinale finì 1-1 e da lì nacque la maledizione dei rigori, (poi ripetuta per altri due Mondiali consecutivi): Donadoni e Serena sbagliarono, in finale ci andarono i campioni in carica di Maradona, poi sconfitti dalla Germania.
Ma se Vicini è stato un c.t. per il quale nessuno ha covato (ed esternato) cattivi sentimenti è perché quel Mondiale fu tantissimo altro, finendo per trasformare in una profezia che si autoavvera la canzone scritta per lanciarlo: le «Notti magiche» di Edoardo Bennato e Gianna Nannini. L’Italia non era solo il Paese organizzatore: era la Nazionale sconfitta in semifinale dalla fortissima Unione sovietica del colonnello Lobanovsky all’Europeo di soli due anni prima. Ed era una Nazionale che aveva parecchie somiglianze con quella del suo predecessore, Enzo Bearzot. Proprio come il c.t. del Mondiale spagnolo, Vicini proveniva dai quadri federali. E, come aveva fatto il Vecio con Valcareggi, Vicini ne prese il posto facendo quello che (per riconoscenza) il Grande Friulano non aveva saputo fare: portare a Messico ’86 non gli eroi di quattro anni prima, ma quelli che gli scalpitavano alle spalle. Ovvero, i ragazzi che, nell’Under 21 di Vicini erano arrivati in semifinale nel 1984 e in finale (persa con la Spagna) all’Europeo di categoria.
Leggere adesso i nomi in rosa di quel Mondiale fa una certa impressione: Zenga, Franco Baresi, Bergomi, Ferrara, Riccardo Ferri, Vierchowod, Ancelotti, Berti, Donadoni, Mancini, Vialli. Più altri due: il primo è quello di Roberto Baggio, che il mondo intero scoprì proprio grazie a Vicini, che lo fece partire titolare nella terza partita, quella contro la Cecoslovacchia . E lui ricambiò con uno dei gol più belli di tutta la sua carriera, con quella finta su Kadlec che ancora oggi non ci si stanca di riguardare.

Leggere adesso i nomi in rosa di quel Mondiale fa una certa impressione: Zenga, Franco Baresi, Bergomi, Ferrara, Riccardo Ferri, Vierchowod, Ancelotti, Berti, Donadoni, Mancini, Vialli. Più altri due: il primo è quello di Roberto Baggio, che il mondo intero scoprì proprio grazie a Vicini, che lo fece partire titolare nella terza partita, quella contro la Cecoslovacchia . E lui ricambiò con uno dei gol più belli di tutta la sua carriera, con quella finta su Kadlec che ancora oggi non ci si stanca di riguardare.

Il secondo, ovviamente, è Totò Schillaci, altro punto in comune con Enzo Bearzot. Se il Vecio, nel 1978 in Argentina, aveva scelto di scommettere su un ragazzo che si chiamava Paolo Rossi, Vicini puntò sul picciotto che Zeman nel Messina aveva fatto diventare capocannoniere e poi se l’era preso la Juve. Non partiva titolare, Totò: la coppia era Vialli-Carnevale. Ma nella partita del debutto, contro l’Austria, dopo 75’ senza gol, Vicini lo mise dentro e lui impiegò solo 4 minuti a segnare il gol-vittoria. Schillaci partì dalla panchina anche nella seconda sfida, quella contro gli Stati Uniti, finita 1-0 con gol di Giannini. Ma alla terza era titolare, mettendoci non più di 9 minuti a portare gli azzurri in vantaggio. A Totò ne servirono 65, nell’ottavo contro l’Uruguay (prima del raddoppio di Serena), 38 nel quarto di finale contro l’Irlanda, 17 nella semifinale contro l’Argentina.

Poi il sogno finì, ma già dalla finale terzo-quarto posto (vinta contro l’Inghilterra a Bari) si capì che quella era stata una sconfitta diversa. È noto che la finalina sia la partita più triste di ogni torneo: ma quella del San Nicola si trasformò in una straordinaria (e molto anomala, per la tradizione del tifo italiano) festa di ringraziamento per la grande illusione che i ragazzi di Vicini avevano regalato a un intero Paese.

Se questo successe, molto si spiega proprio con Azeglio Vicini. Non solo per quella sua pacata dolcezza romagnola che rendeva pressoché impossibile polemizzare con lui. Ma anche per un terzo tratto in comune del c.t. con Enzo Bearzot: proprio come il patriarca friulano, infatti, Vicini restava ancorato nella tradizione del calcio italiano, fondato sulla solidità difensiva, senza però rinunciare a provare a giocare a calcio, se non addirittura divertire. Ci riuscì la sua Under 21, e tutto sommato anche la sua Nazionale maggiore. Impresa facile da un lato, considerando i nomi di quella rosa. Ma più complicata dall’altro, considerando che Vicini sedette sulla panchina azzurra nel momento in cui esplose la più grande guerra di religione del calcio italiano: il Milan di Sacchi e il suo calcio che rovesciava i paradigmi di una tradizione secolare.
E infatti sarà proprio Arrigo (romagnolo come Vicini, ma nessuno avrebbe mai potuto credere che i due erano nati a pochi km di distanza l’uno dall’altro) a succedergli alla guida dell’Italia, dopo la mancata qualificazione all’Europeo del 1992. Anche questo Vicini ha avuto in comune con Bearzot, la cui Italia campione del mondo fallì l’approdo all’Euro francese dell’84. Eppure, di quel fallimento di Vicini non ha memoria quasi nessuno. E dei suoi anni in azzurro resta il migliore ricordo possibile: quello disgiunto dai risultati. Non male, come lascito, per un uomo dal nome risorgimentale, e profondamente italiano. Ma per sua (e nostra) fortuna sfuggito alla tagliola che sa solo separare vittoria e sconfitta.
Fonte: Corriere.it

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