La lezione di mio padre, Candido Cannavò
di Alessandro Cannavò
QUALCHE MESE FA, in un ufficio postale, l’impiegato a cui consegnai il bollettino da pagare scrutò il mio cognome. «Cannavò… è per caso figlio di…?». Niente di strano, da quando è mancato mio padre dieci anni fa, mi capita spesso di rispondere alla domanda. E alla mia conferma, di ricevere un ricordo nostalgico e affettuoso. Ma il signore delle Poste andò oltre: attaccò a “recitare” con pathos l’incipit di un articolo risalente a vent’anni fa. Era un editoriale doloroso legato alla tragica morte di quattro ragazzi tifosi della Salernitana nel rogo di un vagone del treno che riportava a casa i supporter campani da Piacenza dopo la partita che decretò la recessione in B della squadra. Un atto rabbioso degli ultrà aveva provocato l’esito peggiore.
IN QUELLE parole pronunciatemi con la cadenza di una poesia dolente ho ritrovato intatto il dono che aveva Candido Cannavò nella sua scrittura: un’empatia straordinaria con i fatti della vita e dunque con i lettori della Gazzetta, giornale che ha diretto con l’animo e la forza del padre di famiglia per la durata record di 19 anni. Credo, dunque, che non ci sia titolo più azzeccato di Storia sentimentale dello sport italiano (a cura di Elio Trifari con postfazione di Alex Zanardi; Solferino editore, 368 pagine, 17 euro) per questo libro che raccoglie un bel numero dei suoi pezzi. Il “sentimento Cannavò” scioglieva le briglie nella descrizione delle imprese dei nostri campioni. Ma non era mai un esercizio di stile, piuttosto l’espressione più evoluta di emozioni da condividere. Lo zoccolo duro di queste pagine è costituito quindi dai ritratti dei personaggi che ci hanno fatto sognare o piangere. Rappresentano tutta la famiglia dello sport, perché nel suo credo giornalistico la popolarità incontestabile del calcio non poteva mettere in secondo piano le vittorie delle altre discipline. Candido professionalmente era cresciuto con il mito di Coppi e la testimonianza diretta della vittoria di Berruti nei 200 metri ai Giochi di Roma. La fatica del ciclismo e la nobiltà dell’atletica: un imprinting indelebile che gli aprì gli orizzonti. Di Moser nel magico 1984 (due mondiali dell’ora, trionfi alla Milano-Sanremo e al Giro) coglie «un modo di esprimersi, di gioire, di vincere senza epiche: perché parte da una radice umana che sommerge persino il suo talento». Vede il Mennea della maturità alla sua quarta olimpiade, come sempre «teso come una lama… poi crescente, vigoroso, imperioso sul rettilineo dove si snodano i centesimi della verità: 20 secondi d’illusione che il tempo si sia fermato anche per noi». A un giovane Valentino Rossi acrobata trionfante sul bagnato si rivolge così: «Ci hai contorto le budella con quelle sbandate, ci hai esaltato con il tuo coraggio spalmato sui millimetri, ci hai fatto piegare a destra o a sinistra come se dovessimo aiutarti a stare in equilibrio…».
OGNI DESCRIZIONE è un’immersione emotiva, che diventa atto d’amore se si tratta di donne. Da Simeoni a Compagnoni, da May a Vezzali, da Idem fino a Pellegrini, l’avanzata e l’affermazione dello sport femminile lo incantava con la rivoluzione sociale e di costume che si portava dietro. E dopo una domenica particolarmente ricca di risultati realizzò una prima pagina con il titolo a caratteri cubitali: W le donne, sfrattando per una volta il calcio. Una generosità così incondizionata si prestava a subire i tradimenti. Il caso Pantani, positivo al doping nel Giro 1999 e squalificato a un passo dalla vittoria finale, lo aveva vissuto come il reato commesso da un figlio. Forse il dolore più grande della sua carriera, acuito in seguito dalla morte del campione che finì posseduto da altri demoni. «Ma le leggi si rispettano, la fermezza e la buona coscienza chiudono ogni spiraglio». Eppure non rinnegò una sola sillaba di quanto aveva scritto di lui in tante pagine rosa. «Per me, in quei giorni di ebbrezza, Pantani era una verità scolpita nella leggenda».
È STATA FORSE QUESTA CAPACITÀ di far convivere l’emozione del momento con la difesa di valori insindacabili, la sua abilità più grande. Dalla violenza negli stadi, alla lotta al doping, a Calciopoli, la prosa epica si trasformava in sonore bastonate, senza sconti per nessuno. E dopo i fatti dell’Heysel (39 tifosi morti schiacciati e calpestati sugli spalti) fece un appello alla Juve vincitrice della sua prima Coppa Campioni. «Nascondila, non ce la mostrare mai, non metterla nelle tue ricche vetrine…è il più triste trofeo della storia del calcio». Per niente facile scrivere parole del genere. Ma il coraggio di difendere le regole (anche morali) era l’altra faccia della sua passione. Una quadratura del cerchio? Forse. Di sicuro, il suo capolavoro.
Tratto da “Sette -Corriere della Sera”.