Riportiamo di seguito l’articolo “Una luce oltre il doping così rinascono gli atleti” di mons. Mario Lusek (vice-presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport), pubblicato sul quotidiano Avvenire del 14 maggio 2016.
C’è un futuro per chi sbaglia, una nuova via per chi si è smarrito, una speranza per chi si è perso? E se c’è un errore, un male, un reato, un peccato sempre e comunque da evidenziare, qual è l’atteggiamo verso l’errante, il malvagio, il condannato, il peccatore? E se fare giustizia è un diritto e dovere di ogni società, la pena è l’unica via di giustizia? Oltre la pena ci può essere un percorso di guarigione e di recupero di una nuova coscienza e una nuova vita? E guardando al doping nello sport, cosa rappresenta? Un errore, un inganno, una frode, un reato? E l’atleta che vi incorre è un baro, un debole, un furbo, un vincente a ogni costo? Ci sarà un futuro per un atleta dopato? In un documento pubblicato dal Comitato nazionale per la bioetica il 25 marzo 2010 dal titolo Etica, sport e doping si mettono in risalto i valori costitutivi della pratica sportiva e tra questi «l’impegno personale a esprimere le capacità dell’atleta e la lealtà della competizione», e nello stesso tempo si afferma che «il doping costituisce un disvalore proprio perché altera in modo fraudolento tali valori: consente di raggiungere risultati anche a prescindere dall’impegno attivo, introduce un ingiusto e scorretto vantaggio nella parità di condizioni dei partecipanti, oltre a produrre – attraverso una indebita manipolazione del corpo – un danno alla salute psico-fisica dell’atleta con ripercussioni negative sul piano sociale». Il Cnb afferma inoltre che «l’inaccettabilità del doping fa parte del sentire comune nella società, in quanto viola le regole costitutive dello sport sul piano individuale e relazionale modificando il senso stesso dello sport che diviene ricerca del successo fine a sé».

C’ è una nozione, un atteggiamento, un’espressione nel mondo dello sport che definisce il cuore stesso dell’etica sportiva: il fair play. Termine non traducibile in maniera adeguata, il fair play è un valore ma anche uno stile, un obiettivo, un atteggiamento, una caratteristica, soprattutto una forma mentis: il modo giusto di vivere lo sport.

Tanto che una sua caratterizzazione è proprio quella dell’onestà e della limpidezza della pratica sportiva. Il Consiglio d’Europa nel Codice di etica dello sport indica tra gli elementi contrari al fair play la violenza, il doping, l’imbroglio, la corruzione, l’eccesso di mercato e di commercializzazione. Sono invece poche le nozioni e le proposte per accompagnare gli atleti a liberarsi dalla prigionia del doping una volta che si è ricorsi a esso, ed evitare così di cadere ancora nella trappola. Quella recidività che lo fa diventare assuefazione. Di fronte a questa piaga che ha raggiunto anche lo sport di base l’atteggiamento dominante è quello dell’intransigenza e della condanna con la repressione del fenomeno e le conseguenti sanzioni, ma di reticenza sulla possibilità o meno di accompagnare verso una via d’uscita chi viene condannato per l’uso di sostanze dopanti.

Sullo sfondo del fenomeno doping c’è comunque un problema di trapasso culturale. Oggi lo sport vive una marcata trasformazione antropologica che si fa visibile proprio nella figura dell’atleta. Il protagonista è lui: per il ruolo che assume nella società mediatica, per la sua prestanza fisica ed estetica, per la sua rilevanza commerciale. L’atleta, il campione, assurge a opinion laeder e quindi al ruolo di traino di consensi del grande pubblico. L’atleta allora lo si costruisce: diventa importante la sua costruzione biofisica e psicofisica; diventa decisivo il supporto della scienza nutrizionale e farmacologica, che peraltro non è mai neutra. Lo scenario che si apre è inedito e suscita interrogativi a livello sia biologico che etico e sportivo toccando snodi cruciali della visione dell’uomo, della sua identità come persona, del futuro dello stesso sport. Tutto rischia di diventare mito. E al mito si concede ogni cosa, tanto che persino sul doping si registrano correnti di pensiero favorevoli alla liberalizzazione. Eppure sappiamo come il doping investa la concezione della persona umana, riguardi la visione della vita e riveli una cultura che tocca i princìpi dell’essere e del vivere umano. Prima che un abuso farmacologico, il doping è una grave lesione dell’unità della persona e di per sé non ha alcuna giustificazione, né umana né sportiva. Eppoi quel ‘vincere a ogni costo’ che è diventato il motto per raggiungere il successo con il minimo sforzo e il massimo rendimento fa del doparsi quasi una necessità. R itorna la domanda: quali azioni sono necessarie per una atleta che vuole ricostruirsi come persona e come sportivo, che vuole lasciarsi alle spalle un’esperienza per nulla esaltante ma solo demolitrice e infangante per la sua carriera? Da una visione dell’uomo, della vita, dello sport e dell’atleta originata dall’esperienza cristiana che ha nella creaturalità della persona creata a immagine di Dio la sua centralità può svilupparsi un percorso di rigenerazione. Se questa ‘somiglianza’ originaria è stata sfigurata dall’errore, dalla fragilità, dal male, la persona e l’atleta restano sempre ‘immagine’ del Dio creatore. Per questo il primo passo sarà un modo diverso di rapportarsi con l’errore del doping. Chi si è dopato ha perso la sua dignità delegando a una sostanza l’impegno, ma non ha perso se stesso.

Nell’accollarsi la colpa ha già la sua pena, perché il doping gli ha rivelato la propria sconfitta più cocente, il fallimento e l’umiliazione subìta dai tifosi e dai media. Bisognerà allora riempire ex novo di contenuti la coscienza che si è svuotata e spenta, e tornare a illuminarla. Per questo è necessario un ascolto partecipato, in cui si ripercorrerà la storia umana e sportiva, i sogni e le delusioni, le pressioni e le resistenze, le rinunce e le scorciatoie imboccate, il ruolo avuto dai preparatori, le lusinghe di facili successi, i valori e i disvalori che si sono scontrati.

Soltanto dall’ascolto partecipato potrà aprirsi la possibilità di un cammino di ricostruzione della storia sportiva spezzata. S erve poi una nuova responsabilizzazione, ripartendo dal rifiuto dei falsi valori per non invischiarsi innanzitutto in un doping esistenziale e ineluttabile, e riformulando così una propria scala di valori che riempia di senso la propria esistenza sportiva. Autostima, fiducia nelle proprie capacità, affidamento a maestri (allenatori, manager, dirigenti, medici), di vita oltre che tecnici raffinati: per non ricadere nella tentazione del doping, e quindi del successo facile e immediato, occorre recuperare la forza ideale che viene da una solida riformulazione dei valori umani e spirituali. C’è infatti una vita interiore che allena a uno stile di vita diverso da quello sperimentato nel doparsi. Parole come perseveranza, consapevolezza, rispetto, equilibrio, fatica, tenacia, conquista alimenteranno questa vita interiore e daranno la spinta verso mete alte e possibili impegnando a far sempre meglio con le proprie energie, ad affinare le personali abilità con la forza del carattere, a esprimere le migliori potenzialità con l’autenticità della propria vita. Ma c’è anche una fiducia da offrire, necessaria in questa fase in modo che si creino le condizioni per esprimere ancora – o forse per la prima volta – la propria libertà da pressioni, condizionamenti e proposte che hanno costruito attraverso il doping carriere devianti, ritrovando così la grinta per una carriera vincente che punti sull’’altro’ sport: quello che non spinge al record per forza, non lancia sfide e primati impossibili, e propone traguardi alti in forza di quella capacità di tener duro che si sperimenta proprio quando si è sconfitti.

Solo attraverso l’accettazione dei propri limiti sarà possibile vincere la disumanizzazione di chi spinge troppo oltre e con tutti i mezzi possibili gli stessi limiti facendo così violenza anche al proprio corpo e lacerando la stessa identità dell’atleta. Sarà necessario allora favorire nuove difese immunitarie per impedire le tentazioni in arrivo da pressioni indebite ed estranee al mondo dello sport: la cultura dominante, il sistema mediatico, l’idolatria delle cose, la mercificazione del corpo che spinge a una sorta di paganesimo sportivo sacrificando se stessi e la propria volontà a una sostanza. Crediamo non solo possibile ma anche doveroso sostenere, orientare e accompagnare un atleta che è stato irretito e sedotto dal doping rendendolo capace di rivestirsi dell’atleta nuovo. C’è infatti un Vangelo, una gioiosa notizia da raccontare a chi è caduto in questa trappola, ed è possibile farlo anche attraverso la voglia di vivere, di ricominciare a giocare la propria vita su qualcosa di alto ma anche su Qualcuno che non gioca sporco e giocando pulito ti fa nuovo. Si, c’è misericordia anche per il mondo dello sport, e c’è uno ‘sport misericordioso’ che sa trovare in sé i segni del cambiamento e della conversione. Se, come dice papa Francesco, «questo è il tempo favorevole per cambiare vita», e «Dio non si stanca di tendere la mano» a chi vuol farlo, sarà più facile afferrare questa mano tesa e guardare al futuro con speranza.

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